“C’era
una qualche cosa compiuta nel caos, nata prima del Cielo e della Terra. […] Io
non conosco il suo nome, come appellativo lo chiamo tao.” Così recita il capitolo 25 del Tao-te-ching, attribuito al filosofo cinese Lao-tzu (VI-V sec. a.
C.). Letteralmente, quest’opera è «Il Classico della Via e della Virtù». I due
termini compaiono invertiti nell’edizione del 1995 per gli Oscar Mondadori , a
cura di Lionello Lanciotti: Il libro
della virtù e della via. Questo perché i manoscritti su cui essa si basa
sono i due ritrovati nel 1973 a Ma-Wang-Tui, nella provincia cinese dello
Hunan. In questi testimoni, erano invertite le parti in cu tradizionalmente il
testo era diviso: quella dedicata alla “Via” e quella dedicata alla “Virtù”. La
“Via” non è altro che il famoso Tao, da
cui “Taoismo”. E sarebbe difficile definirlo meglio di come faccia quella
citazione in apertura. Anzi, non è affatto descrivibile. Non è un caso se,
proprio in Cina, si sia formata la scuola buddhista Ch’an/Zen, caratterizzata
dal rifiuto delle definizioni verbali. L’impossibilità di circoscrivere il Tao
nelle parole ha reso l’opera di Lao-tzu praticamente indecifrabile anche per
gli antichi. Il carattere intuitivo e sfuggente dei suoi concetti è
probabilmente stato rafforzato dalla natura ideogrammatica della scrittura cinese.
Scrivere per simboli e immagini, non per lessemi: è stato forse questo a
rendere possibile il peculiare pensiero taoista? Linguaggio e strutture mentali
non sono separati.
Appunto, per quanto riguarda
l’ideogramma Tao, la postfazione di
Lionello Lanciotti recita: “è un carattere cinese, composto graficamente
dall’unione di due segni, uno dei quali significa «andare» e l’altro «testa»”
(p. 111). Così, lo stesso curatore dell’edizione legge il concetto: “Il tao è anche una summa oppositorum, il punto o il momento in cui tutti i contrari si
incontrano e si completano nella loro diversità. […] Guai a opporsi o a
contrastare il tao. Guai a cercare di
raggiungerlo con il ragionamento, con lo studio, con l’azione. La forza
dell’acqua è nel suo scorrere passivo e inarrestabile; tale passività è, al
tempo stesso, la debolezza e la forza dell’acqua” (p. 112).
La forma stessa del Tao-te-ching non è quella del trattato
sistematico. Ciascuno dei capitoli in cui il libro è artificialmente diviso è
autonomo. Li si potrebbe definire “lunghi aforismi”. Per esempio:
(Il
ritornare) è proprio il movimento del tao. Esser debole è proprio l’applicazione del tao. (Gli esseri del mondo nascono nell’esistenza, e l’esistenza nasce
nella non esistenza.) (Cap. 40)
Sapere
di non sapere è cosa superiore. Non sapere di non sapere è un male. Perciò il
saggio non è malato, egli considera (la malattia come tale, e perciò non ne
soffre). (Cap. 71)
Il
tao (straripa. Oh! Esso sta a destra
e a sinistra, compie le opere); completa le cose e fama non c’è. Tutte le
creature tornano a esso e non è il signore, e allora è costantemente senza
desideri e può essere chiamato piccolo. Tutte le creature tornano a esso (e
non) è il signore, e può essere chiamato grande. Perciò il saggio può
completare cose grandi, e poiché egli non si considera grande, per questo può
compiere la grandezza. (Cap. 34)
Lasceremo
perdere la tentazione di istituire un paragone con Socrate, col suo “so di non
sapere” e la sua dialettica, che serve spesso a dimostrare solo i limiti del
pensiero speculativo – quello che è incapace di raggiungere il Tao. Forse, i
tesori racchiusi negli ideogrammi di Lao-tzu sono accessibili solo a chi chiude
il libro e vive dentro di sé quell’universale equilibrio di contrasti, come fa
il praticante di tai-chi. Nel silenzio dei muscoli, nell’armonico fluire di
tensione e richiamo delle membra, allora sì, si tocca qualche cosa compiuta – laddove la logica non arriva.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 166 (14 gennaio 2016), pp. 34-35.
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