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Visualizzazione dei post da marzo, 2014

Lucy Westenra (1)

You die, you sleep: Perchance you dream. (2) There are dreadful charms In your fancies; You fall into Death’s arms Like onto a bed of roses. In your core there are fires And ignes fatui; You’re a pit of flames, An alcove of spirits. Descends, descends, lamentable victime, Descends le chemin de l’enfer éternel! (3) The sun won’t lighten Your dancing chasms And your fall will rise From the rose of your senses. Run through the night Like wolves and spasms And escape the Infinity You carry inside yourself! (1)     La prima vittima di Dracula nell’omonimo romanzo di Bram Stoker (1897). (2)     Cfr. William Shakespeare, Hamlet, III, 1. (3)     Cfr. Charles Baudelaire, Femmes damnées – Delphine et Hippolyte (1866), vv. 85-86 (e seguenti).

The Other Side of Darkness

I know, perhaps I’m not The right kind of monster; I don’t belong to your daily nightmare Of noise and chalk powder, Which you cross with your beauty. I come from Nothing And night drank my first cry; My cry called me by name And my name went lost in the wind. I’m the darkness hidden In your blue eyes, The call of the mermaid Who plays with your fair hair. Give up your daily monsters Made of dust and dumbness; If you overcome my lips As red as your fear, Perhaps you’ll discover That the other side of darkness Is Love.

El sueño de Maquiavelo

Vi una muchedumbre insensible y satisfecha. Me dijeron que vivían en el Paraíso. Vi un grupo de hombres discutiendo de política. Me dijeron que vivían en el Infierno. Si me preguntan cuál lugar prefiero, les diré que prefiero hablar de política a vivir en el Paraíso hecho un boludo. PEDRO SHIMOSE “Vidi una moltitudine insensibile e soddisfatta. Mi dissero che vivevano in Paradiso. Vidi un gruppo d’uomini che discutevano di politica. Mi dissero che vivevano all’Inferno. Se mi domandano quale posto preferisco, dirò che preferisco parlare di politica che vivere in Paradiso come un fesso.” (Traduzione di Claudio Cinti) Da: Pedro Shimose, Riflessioni machiavelliche, a cura di Claudio Cinti, prima edizione Sinopia, Venezia 2004. ( Poesia, Anno XXVII, Marzo 2014, N° 291, p. 65).

Riverire e aborrire la Parola di Dio

"Non vorrei vivere in un mondo senza cattedrali. Ho bisogno della loro bellezza e della loro sublimità. Ne ho bisogno di contro alla piattezza del mondo. Voglio levare lo sguardo verso le luminose vetrate e lasciarmi abbagliare dai loro colori soprannaturali. Ho bisogno del loro splendore. Ne ho bisogno di contro alla sporca monocromia delle uniformi. Voglio lasciarmi avvolgere dalla pungente frescura delle chiese. Ho bisogno del loro silenzio imperioso. Ne ho bisogno di contro alle insulse urla da caserma e alle spiritosaggini dei fiancheggiatori del regime. Voglio sentire lo scroscio dell'organo, questo diluvio di suoni ultraterreni. Ne ho bisogno di contro alle stridule, ridicole marcette militari. Amo le persone che pregano. Ho bisogno della loro vista. Ne ho bisogno di contro al perfido veleno della superficialità e della distrazione. Voglio leggere le parole potenti della Bibbia. Ho bisogno della forza irreale della loro poesia. Ne ho bisogno di contro alla devastazio

Una sporcheria dolcissima

“Sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura, e per non farsi risucchiare dalla vertigine della velocità che certo doveva continuamente bussargli nel cervello quanto meno nella forma di quel mondo che strisciava di là dal vetro in forme mai viste prima, meravigliose certo, ma impossibili perché il solo concederglisi per un attimo istantaneamente rimetteva in corsa la paura, e di conseguenza quell’ansia densa e informe che cristallizzata in pensiero si rivelava a tutti gli effetti nient’altro che il sordo pensiero della morte –sui treni, per salvarsi, presero l’abitudine di consegnarsi a un gesto meticoloso, una prassi peraltro consigliata dagli stessi medici e da insigni studiosi, una minuscola strategia di difesa, ovvia ma geniale, un piccolo gesto esatto, e splendido.             Sui treni, per salvarsi, leggevano. […] Nel senso che forse, sempre, e per tutti, altro non è mai, lè

Il Maestro

"Si dice che le sue ultime parole siano state 'Ma taci, cretin...', solo perchè l'ultima vocale se l'è portata via un rantolo piuttosto disgustoso, che ha chiuso una volta per tutte quella dannata boccaccia. Fosse, quella lettera, una 'a' o una 'o', poco importa: il vegliardo era sempre stato equo e imparziale nell'esternare il suo disappunto per l'esistenza del prossimo. Senza dubbio avrebbe indirizzato un tale estremo, lirico saluto a chiunque dei presenti.           Ma non è che una leggenda: in realtà si limitò a bisbigliare un amabile 'Lo sapevo che eri inutile' e dipartì senza tante smancerie.       Quanto agli astanti, erano troppo indaffarati ad azzuffarsi con contegno posticcio per un tozzo di bottino ereditario, per curarsi della saggezza che il de cuius intendesse eventualmente trasmettere ai posteri.             Non aveva mai lavorato in vita sua, il Maestro: era un artista nel convincere la signorina d

Ekpyrosis

Modicum, et non videbitis me; et iterum modicum, et vos videbitis me. (Gv 16, 16) I suoi piedi sfioravano i sassi del ponte con impercettibile passo. Alla sua sinistra, il sole intrideva di tramonto il fiume.             Davanti a lei, la città levava fitte dita di torri, moniti d’un orgoglio vivo o fossile. All’altro capo del ponte, si apriva la porta ove sbarcava il sale condotto da est. Christina era sola, o quasi, per via dell’ora declinante verso il buio. Il mese di marzo pizzicava con una brezza furfantesca, come dotata di vita propria –al modo dei fischi e dei lamenti che il vento soffiava nelle figure fittili e cave che ornavano la Torre dei Saraceni , cosicché il popolo la diceva piena di spettri.  Christina sorrise e subito si rispense. L’unico spettro di quella città, per quel che ne sapeva, era lei. Lo era senza essere mai morta, perlomeno non nel senso in cui s’intende solitamente questa parola. Era morta nel corpo di colui che le aveva strappato