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Ekpyrosis



Modicum, et non videbitis me; et iterum modicum, et vos videbitis me. (Gv 16, 16)





I suoi piedi sfioravano i sassi del ponte con impercettibile passo. Alla sua sinistra, il sole intrideva di tramonto il fiume.

            Davanti a lei, la città levava fitte dita di torri, moniti d’un orgoglio vivo o fossile. All’altro capo del ponte, si apriva la porta ove sbarcava il sale condotto da est. Christina era sola, o quasi, per via dell’ora declinante verso il buio. Il mese di marzo pizzicava con una brezza furfantesca, come dotata di vita propria –al modo dei fischi e dei lamenti che il vento soffiava nelle figure fittili e cave che ornavano la Torre dei Saraceni, cosicché il popolo la diceva piena di spettri.  Christina sorrise e subito si rispense. L’unico spettro di quella città, per quel che ne sapeva, era lei. Lo era senza essere mai morta, perlomeno non nel senso in cui s’intende solitamente questa parola. Era morta nel corpo di colui che le aveva strappato un bacio di sangue. E nel proprio corpo, che aveva raccolto il sangue di lui.

            Aveva già conosciuto storie di esseri come quello: creature che mutavano forma, che erano lupo, volpe o uomo e, allo stesso tempo, nulla di ciò. Che provocavano malesseri nel bestiame. O negli uomini. Ma lui era arrivato con un esercito straniero, con un elmo, una mantella e una corazza di cuoio. L’aveva presa fra i pioppi sulla riva di un fiume. Un altro fiume. Non l’aveva più rivisto, dopo essere fuggita dalla furia degli umani che avevano riconosciuto il suo morbo. Sanguisuga. Così avrebbe potuto definirla la lingua che si parlava nello Studium generale, l’associazione di professori e allievi di cui la città era gelosamente orgogliosa. Un’altra perla di cui essa aveva goduto era stato il commercio, fino a pochi decenni prima. Questo languiva, ma non tanto da far estinguere i borghesi in velluti accesi e con borse rigonfie, o le signore dalle fronti candide di biacca. Si eran chetati i pulpiti: quel lusso era troppo sbiadito per infiammare ancora sermoni e fanatismi morali.

A Christina, pure, nessuno si sognava di dar la caccia. Era, per i cittadini, una presenza morbida, ignorata come i sogni durante il giorno. Di notte, entrava per i pertugi, con una misteriosa leggerezza di fumo, e assumeva il proprio nutrimento dalle vene dei solidi dormienti. Le nebbie di quella terra fluviale le facevan da seconda pelle, d’inverno.

            La notte non si era ancora posata, quando Christina varcò la soglia d’un’osteria. Era uno dei suoi terreni di caccia favoriti –soprattutto quando, alla sete, si univa una puntura di solitudine. Non misurava il tempo, né avrebbe saputo farlo, dato che il suo morbo la sottraeva a ogni mutamento. Ma i suoi momenti di horror vacui suggerivano che lei avesse, ormai, un’età di diversi secoli.

            In quell’osteria, non era strano trovar presenze femminili. Il malaffare che vi si praticava era di diversi generi. L’ostessa-ruffiana non l’avrebbe disturbata. L’aveva già dissuasa, lasciandole sul collo segni che ancora cercava di coprire.

Alla luce che gocciolava dalle finestrelle, due figuri dalla barba irta si giocavano le bevute ai dadi. Un altro –un panciuto dal doppio mento- si era afflosciato sullo sgabello, in un sonno di mosto. A un altro tavolo, sedevano quattro giovanotti, che le loro palandrane indicavano quali studenti. Avevano lasciato vuoti i bicchieri e –chi con occhi accesi, chi col gomito appoggiato alla tavola- ascoltavano il più giovane pizzicar le corde d’una viella. Il suono cupo e ronzante attrasse Christina, già stuzzicata dall’odore rigoglioso dei quattro.

            Uno di loro –chiome castane lunghe e unticce- s’accorse di lei ed ammiccò ai compari. Il quarto smise di suonare; un guizzo d’attenzione strappò la brigata al torpore. Christina passò all’attacco.

«Salute a voi, signori! Chi siete?»

Uno di loro, dagli occhi grigi e puntuti, scoppiò in una lubrica risata. «Chi siamo noi, madonna? Siamo piissimi frati, tutti sant’uomini… E questo…» Indicò il compare di fronte a lui. «…è il nostro venerabile abate!» Il figuro, corpacciuto e rubizzo, si alzò in piedi e salmodiò un’oscenità. Ne scrosciarono altre risate; solo il suonatore rimase in silenzio.

«Che hai, Nastagio?» lo stuzzicò il parlatore. «Non sei contento, ora che hai anche i soldi per comprarti le brache?»

Christina lo fissò. Era sottile, con riccioli di glicine e gli occhi d’affusolato giaietto. Era difficile dirlo, nella penombra, ma sulle sue guance doveva esser comparso un tocco di rossore.

«Su, canta qualcosa alla ragazza!» lo esortò “l’abate”. «Quella dell’innamorata lontana dal suo uomo».

Con un sorriso di modestia, Nastagio intonò a mezza voce:



Deh lassa la mia vita!

Sarà giammai ch’io possa ritornare

donde mi tolse noiosa partita? (1)



Il suo canto non aveva doti eccelse, ma poteva piacere. Christina gli inviò uno sguardo d’incoraggiamento.



O caro bene, o solo mio riposo,

che ‘l mio cuor tien distretto…



A poco a poco, gli altri tre tornavano nello stato di indolenza in cui lei li aveva trovati. Nastagio proseguiva, a occhi bassi.



Se egli avvien che io mai più ti tenga,

non so s’io sarò sciocca,

com’io or fui a lasciarti partire…



Gli altri avventori si erano già dileguati. Anche i compagni di Nastagio decisero che era ora di chiuder la giornata e salirono al proprio alloggio. Il ragazzo continuò a fissare la tavola. Christina rimase impassibile. Poi semplicemente, prese l’altro per mano e lo fece alzare. Lo condusse fuori, nel buio intatto. La viella era rimasta accanto allo sgabello.



 *   *   *



L’alba trasudò attraverso un velo di nubi. Christina ne assaporò l’oro sulla fronte nuda, distesa sulla terra umida di quel campo. Sulle sue labbra, c’era ancora la dolcezza irresponsabile di quel banchetto –il pulsare della gola di Nastagio, fra paura e curiosità fatale. Non ricordava un’altra notte di simile oblio animale. Per una volta, la solitudine era sembrata non esistere più.

      La testa bruna del ragazzo riposava ancora sul petto di lei, con un abbandono perfetto –troppo. La sanguisuga gli passò le dita fra i capelli. Svegliati, caro bene.

Le palpebre di lui rimasero ferme, cortine di marmo sugli occhi che Christina voleva rivedere. Il colorito era compiutamente candido. Lei riguardò i forellini lasciati dal proprio bacio. Capì.



Se egli avvien che io mai più ti tenga,

non so s’io sarò sciocca,

com’io or fui a lasciarti partire…





  *   *   *



Si insinuò da una delle finestrelle e andò ad abbattersi su uno sgabello. L’osteria, dopo un’altra giornata, era deserta. Christina aveva trascorso le ore fra una notte e l’altra vagando fuori di sé, dopo aver seppellito Nastagio nella terra aperta del campo.

    Le tenebre pesavano nella stanza. Le scalfiva una candela di sego appiccicata su una tavola e dimenticata accesa da qualcuno. Christina si alienò nelle contorsioni roventi della fiammella, per qualche innumerabile minuto. Poi, un oggetto di legno cavo contro il suo piede la riscosse. La viella di Nastagio.

    Inghiottendo un urlo, la prese e la scaraventò nel caminetto spento. La sua forza di belva fracassò lo strumento. Strappò la candela dalla tavola e la gettò sulla salma di schegge.

    Non rimase a controllare se il fuoco avesse attecchito. Esso s’innalzava già nei suoi occhi, nel suo cuore, mentre ripartiva per le vie senza luce. Le sembrò che quella fantastica pira avvolgesse tutta la città, in una preghiera di resurrezione. Più vera del sole a cui correva incontro, lungo la speranza della notte.







(1)   La canzone è quella posta a conclusione della Giornata VII del Decameron di Giovanni Boccaccio.



Vincitore per la sezione “Fantasy” al concorso "Caratteri di donna", bandito dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Pavia (2013/2014).



Pubblicato nell’antologia Ripartire. Caratteri di donna, (“Minimalia”), Como-Pavia, 2014, Ibis.

Qui l'elenco dei racconti vincitori, con annesse motivazioni.


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