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La musica primitiva

“Spirito” deriva dal latino spīrĭtŭ(m): “soffio”, aria emessa. Ovvero, qualcosa che ha la stessa natura del suono. Proprio questo è il succo delle ricerche di Marius Schneider (Haguenau, 1903- Marquartstein, 1982), singolare combinazione di musicologo e mitologo.
            Schneider insegnò nelle università di Barcellona, Colonia e Amsterdam. Dedicò la vita a ricomporre l’antichissima concezione del cosmo fondata sul suono. Per farlo, confrontò varie culture: quella cinese, quella dei nativi australiani, quelle dell’Asia Centrale, quelle africane, ma guardò anche ai capitelli romanici. La summa delle sue ricerche rimase incompiuta. Nel 1960, come contributo all’Enciclopedia della Pléiade, comparve il suo Le rôle de la musique dans la mythologie et les rites des civilisations non européennes. In Italia, è pubblicato col titolo La musica primitiva (Milano 1992, Adelphi ; traduzione di Stefano Tolnay). 

            Un gran numero di osservazioni sulla natura e il ruolo della musica è contenuto nei miti della creazione. Così come il Dio biblico crea con la voce, altre figure divine emettono suoni (quindi, “spirito”, soffio) nel vuoto originario: “L’abisso primordiale, la bocca spalancata, la caverna che canta, il singing o supernatural ground degli Eschimesi, la fessura nella roccia delle Upaniṣad o il Tao degli antichi Cinesi…” (p. 13). Il suono emesso dal creatore è descritto da Schneider come “nato dal Vuoto” e “frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio.” (p. 14). L’articolazione della voce creatrice è ciò che muta nelle diverse mitologie: coincide con la sillaba OṂ nelle Upaniṣad, con un urlo del Dio secondo gli Iakuti, con grida o suoni strumentali nella mitologia cinese, con ventidue caratteri alfabetici nel Sefer Yezirah. Ma anche il tuono è voce del creatore, imitabile grazie al tamburo. In molti miti, questo suono è anche l’accompagnatore della luce o dell’aurora, così come il tuono accompagna il lampo. Gli inizi del mondo, spesso, prendono anche la forma di un uovo o di una conchiglia: “casse di risonanza” per il suono creatore.
            Definire il ruolo degli dèi all’origine dell’universo è una difficoltà. Secondo i risultati di Schneider, è raro che il sommo Dio (musico, cantante o urlatore) ponga mano direttamente all’opera. Egli ha l’idea della creazione e la enuncia. Il lavoro sulla materia spetta a divinità minori, come il Demiurgo platonico. Questo tipo di figura è denominato coyote o transformer, secondo la terminologia degli etnologi inglesi e americani: un’entità a metà fra il mondo dei vivi (la terra) e quello dei morti (il cielo). Per dare forma all’idea puramente sonora del Creatore, il transformer deve ricorrere a sostanze più pesanti: per esempio, l’argilla che si trova sul fondo delle acque, come in un racconto dei Maidu (America).
            Il tuono - spesso identificato col “suono creatore” - è di natura duplice (creatore e transformer). “A Timor, si distingue il tuono secco, chiaro e celeste da un altro tuono la cui voce è grave, rombante e terrestre. Gli Zulu non temono il tuono celeste, ma hanno paura di quello della terra. Per i Masai il tuono è buono e nero allorché si fa sentire da lontano; è rosso e malvagio quando è vicino. Gli Ewè (Africa) chiamano maschile il tuono violento e improvviso e femminile il rimbombo prolungato. Tuiafutuna, il dio del tuono dei Polinesiani, gridando si divide in due parti (Tonga). Per i Mbowamb (Nuova Guinea) il tuono è una coppia di gemelli…” (p. 27). Da un fischio del dio egizio Thot, invece, nacque il Pitone, “che è la prescienza universale” (ibid.). Lo stupore di Thot davanti alle creazioni nate dai suoi stessi suoni lo portò a proferire le tre note musicali I A O! “Dall’eco di quei suoni nacque allora il dio che è il signore di tutto” (pp. 27-28). Viene in mente quell’ “I” che fu il primo nome di Dio, secondo l’Adamo dantesco (Par. XXVI, v. 134); oppure, la potenza evocativa delle Vocali di A. Rimbaud.
            Dato che l’emissione sonora è, allo stesso tempo, essenza della divinità ed essenza del mondo, non stupisce l’indispensabilità della musica in ogni rito religioso. Il canto è sacrificio e offerta.
            Secondo la cosmogonia brahmanica, anche i primi uomini avevano natura sonora: “erano esseri incorporei, trasparenti, sonori e luminosi che si libravano sulle acque […] inni di luce che riflettevano le idee del loro creatore […] immagini acustiche che erano l’essenza della loro natura e che solamente nel secondo stadio della creazione si sarebbero rivestite di materia.” (p. 33).
            Data questa potenza del sacrificio sonoro, non c’è da stupirsi che - nelle cosmogonie vediche, indù e persiane - dèi e demoni si battessero per impadronirsene, o la offuscassero con la menzogna. In particolare, il transformer - il dio della materia - è spesso ingordo e cerca di possedere gli uomini.
            Il nome - o un intero canto - è poi quello che conferisce la propria identità a ciascun individuo e gli dà un posto nella società. “Secondo Granet, il termine cinese che significa vita e destino (ming) non si distingue da quello (ming) che serve a designare i simboli vocali.” (p. 47).
            Schneider menziona anche l’idea del “velo di māyā (p. 37): il confine tra l’apparenza e la realtà. Detto “velo” sarebbe stato tessuto da una gerarchia di dèi, demiurghi e spiriti, che avrebbero offuscato il suono-sostanza con la materia. Per superare la māyā - prevedibilmente - il mezzo è musicale: per esempio, l’albero-tamburo “«sognato dalla dea madre, quando ricevette le parole divine» (Menominee)” (p. 50). L’errore primordiale dell’uomo sarebbe consistito nell’abbattere questa pianta sonora, per allontanare il cielo e aver più spazio per sé. Qui entra in gioco la figura dell’eroe civilizzatore: colui che scende dal cielo e insegna all’umanità i riti e i canti necessari per vincere l’illusione dei sensi e recuperare l’immortalità. Questo benefattore avrebbe curato soprattutto il sacrificio sonoro (gli inni devoti). “Gli dèi non possono ignorare i sacrifici sonori […] perché questi riti toccano la sostanza stessa degli immortali. […] percorrendo quella via gli dèi si materializzano e gli uomini si spiritualizzano; si ottiene allora la compenetrazione fra il cielo e la terra che porta l’armonia fra gli dèi e gli uomini. Se l’uomo è disposto a trasformarsi in risonatore e a divenire «di orecchio fine», viene ricompensato con la facoltà di disfare il velo dell’illusione e di avvicinarsi al mondo acustico dei morti.” (p. 52). 

Risonatore cosmico in questo senso è il mago. Egli è in grado di riprodurre il linguaggio originario degli dèi e di identificarsi - tramite il canto - con ogni essere. La metamorfosi magica più frequente è quella in animale, come negli antichi riti egizi e indiani. Proprio la funzione del canto definisce la distinzione tra magia e religione: “Il mago cerca di identificarsi con il suo dio o il suo spirito per impadronirsi di lui. La religione si limita a chiamare o a risvegliare il proprio dio e gli offre il cibo acustico sotto forma di un canto di lode; non cerca però di ostacolarne la libertà.” (p. 68).
Gli strumenti musicali stessi sono frutto di un sacrificio. I primi materiali con cui furono costruiti erano legno, ossa, cuoio e altre sostanze tratte da esseri viventi. Non stupisce dunque che Schneider abbia rinvenuto diversi miti in cui uno strumento è descritto come un dio sacrificato. “In un racconto kirghiso […] un dio-scimmia, saltando da un albero all’altro, cadde e si ferì mortalmente. I suoi intestini rimasero tesi fra due alberi, e quando si furono seccati risonarono al vento. Un cacciatore […] imitò il principio e costruì il primo liuto. Gli dèi del tuono si incarnano di preferenza nei tamburi. […] I sonagli dei Menominee sono le «mani» di un dio. La conchiglia di Śiva è la parola divina.” (p. 75).
Naturalmente, perché uno strumento manifesti tutta la divinità che è in esso, deve essere consacrato. “Uno stregone malinke (Africa) chiese un giorno a un fabbro di costruirgli una chitarra. Quando fu pronta, il musicista la provò e constatò che aveva un pessimo suono. Il fabbro allora gli disse: «Questa chitarra è un pezzo di legno. Fino a che non ha un cuore, come vuoi che canti? Sta a te darglielo. Devi prendere sulle spalle questo legno e portarlo nella mischia perché risuoni sotto i colpi di spada. Bisogna che assorba del sangue; ha bisogno di assorbire il tuo sangue e il tuo soffio. Bisogna che le tue pene diventino le sue e che la tua gloria diventi la sua gloria».” (pp. 77-78).
L’intuizione mitologica circa la natura sonora del cosmo è stata razionalizzata dal sapere filosofico di diverse culture. Esse hanno creato concordanze tra i fenomeni naturali, servendosi anche dei cinque o sette suoni del sistema tonale. Il Vedānta ha collegato le cinque parti di un canto sacro - il sāman - con corrispondenti astri, stagioni, animali, facoltà umane. La filosofia cinese ha collegato le note musicali coi punti cardinali, oltre che con parti del corpo, corpi celesti e le altre cose summenzionate.
Alla luce di tutto ciò, si comprende come il ruolo sociale dei musicisti sia - al contempo - prestigioso e misterioso. Essi portano nel cuore la sostanza degli dèi e di tutte le cose; le mitologie attribuiscono loro nascite straordinarie. “Il loro mestiere è spesso ereditario, e comunque non si diviene musicisti per libera scelta. Gli Iakuti dicono che l’ossessione da parte degli spiriti di cui soffre un musicista è la stessa di cui soffre lo sciamano. Il musicista è costretto a cantare. Mentre però lo sciamano paga la sua forza con la salute, il musicista la sconta con la perdita della felicità. Egli è un uomo sfortunato, perché attira costantemente l’attenzione degli spiriti.” (p. 95)
Nelle religioni, la musica è semplice accompagnamento di un rito rivolto al dio. Nelle culture magiche, la melodia è sacrificio del dio (o di uno spirito), che stabilisce un buon equilibrio fra cielo e terra. Nutrire gli spiriti coi loro canti favoriti significa renderseli propizi. Sono “buoni” se disponibili a questo rapporto di scambio, malvagi se sono refrattari o addirittura si nutrono della sostanza sonora dei viventi. Nei riti funebri, la musica libera l’anima del defunto dalla materia. Nei rituali legati alla nascita e alla circoncisione, il canto consegna l’identità e lo stato sociale al neonato. La musica scandisce l’alternarsi delle stagioni, prepara i futuri sposi e cura le malattie.
Con la perdita della cultura magica, l’importanza dei suoni viene drasticamente ridimensionata. Sopravvive, però, nel campo dell’estetica: gli strumenti più sofisticati mirano a imitare la voce umana, a esprimere in modo stilizzato il sentimento della natura o a suggerire sensazioni visive. Le orchestre sono ancora legate alle occasioni ufficiali, se non più sacre. La funzione estetica della musica ha portato all’esigenza di moderare i suoni per renderli armoniosi. Non è mutata, però, la concezione che era anche alla base della musica primitiva: quella per cui l’uomo è immagine del cosmo e viceversa. “Da sempre il primo posto è stato assegnato alla voce umana; spesso le qualità più celebrate del flauto e della cetra stanno nel saper imitare la voce umana. La voce è l’uomo; e l’uomo è la misura di tutto. […] Il suo soffio sonoro sale per i canali interni, gli dilata i polmoni e gli fa vibrare le ossa. Trasformato così in risonatore cosmico, l’uomo si erge come l’albero parlante.” (p. 134).

Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (18 giugno 2016).

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