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Nebbia sul Naviglio

Romano Franco Tagliati, su Il Borghese, marzo 2012

Nostalgia di un'altra Milano
Nebbia sul Naviglio

NELLA Milano degli anni sessanta c’era la "mala, quella cantata da Gaber, un manipolo di ladruncoli col vestito a righe tra i quali primeggiava un Cerutti Gino, eroe per gli amici del bar, che di notte rubavano, o vigilavano sulle fanciulle in fiore - che battevano intorno alla Centrale - e, di giorno, andavano in giro per i caffè dove fumavano Camel e inneggiavano al mitico bel René, salito in quegli
anni all’onore delle cronache. La polizia li conosceva nome per nome e, se qualcosa accadeva durante la notte, già sapeva la mattina a quale porta bussare. "
Oggi, se facessi il bandito", dice Vallanzasca in una recente intervista, "vivrei tre giorni. Troverei subito uno che mi ammazza direttamente, o mi fa ammazzare per cento euro." Il modello delle piccole bande cresciute nell’hinterland, ai margini di una città ricca e operosa, per i quali vivere dentro o fuori dalla galera cambiava poco, non avevano come modello il Passatore o Arsenio Lupin, o Jessie James, ma pensavano che rubare ai ricchi non fosse peccato, e mettere a repentaglio la propria vita per svaligiare una banca, fosse addirittura un atto di eroismo e di giustizia sociale. C’era, inutile nasconderlo, in quei rari avvenimenti - senza per questo voler idealizzare la delinquenza, sempre assolutamente deprecabile - qualcosa di romantico, che obbediva a un patto, per quanto scellerato, secondo il quale gli amici erano amici, qualunque fossero i loro torti e le loro ragioni.
La società a Milano - persino quella della malavita - si è spaccata. La stretta di mano, la parola data, e persino una cambiale, oggi che in molti casi il furto è stato legalizzato, non valgono più, né per i delinquenti né per le persone cosiddette per bene. Oggi, come in quegli anni, a Milano circolano molto danaro e molte lacrime, ma la Milano in cui i poeti, gli scrittori, i pittori, che piovevano da ogni regione, venivano ancora invitati nelle case dell’alta borghesia dove, nonostante l’inevitabile contrasto
dovuto più che al censo, al danaro, il pensiero di una persona colta ancora contava, non esiste più.
Resta una grande nostalgia per quella che fu la città dell’editoria e della meccanica, delle fabbrichette dove spesso lavorava anche l'imprenditore, il padrone, venuto dalla gavetta, ma anche il luogo dove si incontravano architetti come Zanusso, Magistretti, Castiglioni, Gio Ponti. Dove, al «Capolinea», nei
pressi dei Navigli, Franco Cerri, Gorni Kramer e Chet Backer, facevano Jazz. Per la città dei Falk, dei Marelli, dei Pirelli, capitani della grande industria, ma anche dei Borghi che, apriva un’"officinetta" dalla quale nasceva la Ignis, che mandava frigoriferi in tutto il mondo.
Nostalgia per la città di Mondadori che veniva dalla provincia dove faceva il tipografo, e di Rizzoli, detto "il commenda", cresciuto nell’Istituto dei "Martinitt", che ancora prendeva gli autori sottobraccio e, se decideva di pubblicarli, camminando lungo i corridoi della Casa editrice, chiedeva: "E a dané? A soldi, come stai?" Per quella città dove fino al 1999, sul palazzo che fronteggiava il Duomo, brillavano nella notte le insegne luminose che reclamizzavano i prodotti in voga, e Saba scriveva, "Mi riposo in piazza del Duomo// invece di stelle //si accendono parole".
Era l’emblema del perfetto connubio di una città nella quale sacro, profano e letterario armoniosamente si mescolavano, di una realtà che cresceva e che, pur tra mille contraddizioni e polemiche, uscita dallo stato d’animo traumatico in cui l’aveva trovata Visconti, quando vi aveva girato Rocco e i suoi fratelli, salutava i primi matrimoni "misti" che allora erano quelli fra "polentoni" e "terroni" con moderato entusiasmo, dopo che grazie alla televisione, avevano incominciato a parlare la stessa lingua.
"A Milano non fa freddo", aveva scritto Marotta , perché era una città in continuo movimento, allegra, effervescente che, polemiche campanilistiche a parte, ti apriva il cuore e, all’occorrenza, anche il portafoglio. Tutti i miei parenti s’erano comprati una casa e tutti quelli che negli anni ‘70 , con l’inflazione al 25 per cento, avevano contratto debiti investendo in immobili, erano diventati ricchi.
Io facevo la spola tra Milano e Berlino e ogni volta che tornavo in Germania, mi guardavo intorno e trovavo che i Tedeschi, se confrontati con il nostro tenore di vita, erano rimasti dei poveri.
Poco dopo arrivò dall’America il "sessantotto", un movimento transnazionale che toccò tutti i Paesi d’Europa, al quale illustri sociologi e storici hanno dedicato, senza mai venirne a capo, migliaia di pagine, e il giudizio del quale io, modesto scrivano, lascio volentieri ai posteri. Da allora, nulla è più stato come prima.
Per molto tempo al buon senso, al confronto, al riconoscimento per chi aveva saputo crescere, creare lavoro, erano subentrate l’invidia e la rabbia. Il padrone, anche se ancora con le pezze al culo, era diventato un nemico, la ricchezza, anche se meritata, un furto, i diritti un comandamento avulso dal dovere.
In quegli anni, nelle scuole, dove a detta di quei "rivoluzionari" sessantottini, si forgiavano "i padroni di domani", il professore, a meno che non si presentasse prono di fronte a classi incontenibili, era un nemico da abbattere. Sono gli insegnanti usciti dalle loro mani, quelli ai quali abbiamo affidato più tardi i nostri figli.
Milano, la Lombardia, il Veneto, sono andati avanti abbassando il capo e tirando il carretto, mentre la romantica "mala", travestita prima con gli abiti dell’intellettuale, ha incominciato a insinuarsi in un tessuto ormai sfilacciato che consentiva loro di entrare in politica e perfino di arrivare al governo.
Non crollò in quegli anni soltanto l’economia, ma la morale. Qualcuno mi criticherà perché mi ostino a voler storicizzare un argomento in apparenza così banale, ma non c’è niente al mondo - nemmeno l’ammannita falloide - che nasca senza avere un seme, una spora. Tutto questo e molto altro è stata Milano.
La bilancia a quel tempo starata, è la stessa con la quale da molti anni si pesa ormai, e non soltanto a Milano, il merito, la Giustizia e la logica che elegge come massimo valore il denaro senza chiedersi quale ne sia l’origine, e premia i furbi, quelli che comprano aerei ed evadono le tasse e, invece che macchinari e panettoni, sfornano oggi derivati, e siedono nelle banche attraverso le quali transitano
e si perdono i loro enormi profitti. Inevitabile che Milano, dove il denaro ancora corre - per quanto su altri binari - diventasse il luogo ideale dove portare le direttrici della mafia e della camorra.
L’assalto alla fortezza è in atto fin da allora. Nei momenti difficili vengono al pettine i nodi dell’operato della politica e dell’economia, ma soprattutto dell’etica con la quale abbiamo operato negli ultimi trent’anni, quelli che hanno consentito al bilancio dello Stato di sforare, al debito pubblico di arrivare al 120 per cento del Pil e alla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta, e chissà quali
altre organizzazioni criminali, di diventare uno Stato nello Stato.
Arriva il momento in cui per la politica diventa quasi inevitabile consegnare un mandato. Un segnale che ci fa capire che nemmeno la democrazia è immortale.
I milanesi? Erano talmente stufi dell’immobilismo, dei litigi tra le parti, delle loro sceneggiate, dei loro furti, che ora, anche un governo tecnico, non democraticamente eletto, lo accolgono come un miracolo.
D’altro canto, se non l’hanno uccisa la peste, le bombe della guerra, e la malavita organizzata, l’occupazione dei Tedeschi, la resistenza, il sessantotto, Mani Pulite, e la ferale concorrenza della Cina, credo fermamente che neppure la crisi e la camorra avranno la meglio. I milanesi, non fanno commenti. Abbasseranno come sempre la "cabeza" e continueranno a tirare il carro. È la loro vocazione.
Sta nel loro Dna.
















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