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Giornata della memoria: fotografare la banalità del male

Per la Giornata della Memoria (27 gennaio) 2018, l’I.I.S. “B. Pascal” di Manerbio ha allestito una mostra fotografica in Aula Magna. Gli scatti sono rimasti esposti dal 22 al 27 gennaio. Erano accompagnati da una locandina che così recitava: “Reportage fotografico 1993 nei luoghi della bestialità. 1933-1945. Fotografie attuali 1987-1993 di Cesare Mor Stabilini.” I testi che accompagnavano le scene erano invece attribuiti a Giuseppe Barbieri. 
cesare mor stabilini giornata della memoria
Dal reportage fotografico di Cesare Mor Stabilini
per la Giornata della Memoria 2018
(Manerbio, BS)
            Le figure in bianco e nero rappresentavano immagini tristemente note: gli ingressi dei campi di sterminio nazisti, con cieli bianchi, alberi spogli, grandi cancelli, rotaie; forni crematori; torrette; fili spinati; i prigionieri ridotti pelle e ossa, o già cadaveri ammassati. Altrove, invece, si aprivano gli occhi di vittime vive (quelli di una ragazza aggredita, o di bambini con le mani in alto); stelle cucite sui cappotti di due ragazze; divise, svastiche, fucili puntati. I luoghi erano firmati con nomi che ricorrono ogni anno: Treblinka, Mathausen, Terezín, Auschwitz, Birkenau, Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen, Majdanek. Altrove, comparivano tombe ed epigrafi commemorative.
            Oltre ai testi di Barbieri, fungevano da didascalia i noti versi di Primo Levi e di Bertolt Brecht. Un pannello accoglieva ritagli di giornale, tratti da “Il Piccolo”, “L’eco di Bergamo”, “Il Giornale di Gorizia”, “Bresciaoggi”, “Il Giornale di Brescia”. Essi erano dedicati a commemorazioni di quanto avvenuto nei lager. Una curiosa forma di giornalismo dedicata al passato, anziché al presente. Forse perché il grembo da cui nacque il suddetto passato “è ancor fecondo”, come recita Brecht. La voglia di “soluzioni finali” (o presunte tali) ai problemi sociali non ha perso la propria carica, nonostante la Giornata della Memoria s’ingegni, ogni anno, di sensibilizzare alle estreme conseguenze cui essa può portare.
Per l’appunto: la sensazione più sinistra che si può provare, davanti a quelle fotografie, è quella della familiarità. Un assoluto vuoto che non fa né ridere, né piangere, per le troppe volte che quelle scene si sono ripetute davanti a chi non le ha vissute. Forse, è questo lo scopo di una “soluzione finale”: annichilire il sentimento, la capacità di “patire con” un altro essere senziente.
Peraltro, quelle strutture così asetticamente efficienti rappresentate in foto sembravano fatte apposta per incarnare la proverbiale “banalità del male”. I più cupi misteri non sono stati celebrati in cripte e castelli, ma in monumenti di pragmatica modernità.

Così scriveva Oscar Wilde nel 1897, in una lettera al “Daily Chronicle” sulla vita carceraria: “La gente, oggi, non capisce cosa sia la crudeltà. La considera una sorta di terribile passione medievale e la collega a razze d’uomini come Ezzelino da Romano e altri, ai quali infliggere dolore deliberatamente dava una vera follia di piacere. Ma gli uomini dello stampo di Ezzelino sono meramente tipi abnormi di individualismo perverso. La crudeltà ordinaria è semplicemente stupidità. È la totale mancanza d’immaginazione. È il risultato, ai nostri giorni, di sistemi stereotipati, di regole ferree, e della stupidità. Ovunque ci sia centralizzazione c’è stupidità. Ciò che è disumano nella vita moderna è la burocratizzazione.” (Da: “The Case of Warder Martin: Some Cruelties of Prison Life”, in: Oscar Wilde, “De Profundis”, edited, with a prefatory dedication, by Robert Ross, Kessinger Legacy Reprints, pp. 124-125. Traduzione nostra). Scritto alla fine del XIX sec., sembra una profezia.

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