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Lo Zen e la Bibbia

Il Giappone è un luogo dove l’incontro fra tradizioni spirituali locali e Cristianesimo è stato molto aspro. Ma anche quello dove sono nati risultati originali. L’esperienza di J. Kakichi Kadowaki ne è un esempio. Nato nel 1926, crebbe nell’ambito del Buddhismo Zen. Nel 1950, entrò nella Compagnia di Gesù e fu ordinato sacerdote nel 1960. Il suo maestro zen fu Sogen Omori, presidente della Hanazona University e appartenente alla scuola Rinzai. Fra i suoi libri, ne è particolarmente famoso uno a sfondo autobiografico: Lo Zen e la Bibbia, pubblicato in Italia dalle Edizioni Paoline nel 1985 (trad. di Giuseppe Mariani). L’intento principale del libro è rispondere a una domanda che l’autore si è sentito spesso rivolgere: “Perché un sacerdote cattolico pratica lo Zen?” Domanda tutt’altro che oziosa, in tempi in cui non andava certo di moda il confronto interreligioso. Da seminarista, Kakichi Kadowaki non aveva il permesso di partecipare a un sesshin (= ritiro spirituale zen). Praticava però lo zazen (= meditazione seduta) da solo, durante l’ora di meditazione mattutina. 
            Un’eredità importantissima del Buddhismo giapponese, nella spiritualità dell’autore, è la consapevolezza dell’importanza del corpo. “[Lo Zen] è un metodo che procede «dal corpo alla mente», innanzitutto sedendosi correttamente, regolando la respirazione e poi ordinando la mente. […] Il metodo occidentale consiste nel riflettere prima razionalmente, nell’esprimere un giudizio, nel voler fare qualcosa e alla fine nell’usare il corpo per eseguire l’atto. Questo procedimento si può chiamare «dalla ragione al corpo». Tali caratterizzazioni dello Zen e del cristianesimo occidentale peccano di semplicismo, ma si può dire che sono sostanzialmente vere.» (pp. 26-27). Tale differenza viene dalle radici che lo Zen ha in comune con lo yoga. C’è però anche un’importanza del corpo tipicamente cristiana che Kadowaki coglie in un passo evangelico: “Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te…” (Mt 5, 29). Il versetto consuona con un koan (= storia enigmatica che stimola l’illuminazione): “Gutei alza un dito”. “Quando il maestro Gutei era interrogato [sullo Zen], si limitava ad alzare un dito. Egli aveva un giovane assistente, al quale chiese un visitatore: «Che tipo d’insegnamento dà il tuo maestro?». Il ragazzo sollevò un dito. La cosa fu riferita a Gutei, che tagliò il dito del ragazzo con un coltello. Poiché l’assistente uscì urlando di dolore, Gutei lo chiamò. Quando voltò la testa, Gutei alzò il dito. Il ragazzo fu subito illuminato.” (p. 31). Secondo Kadowaki, la differenza fra il dito del maestro e quello dell’allievo era la seguente: il primo esprimeva l’essenza dello Zen vissuta in prima persona, il secondo era pura imitazione formale. Attraverso lo shock del taglio, il giovane si liberò dall’errore. “Mettendo tutto il suo corpo e la sua anima nel grido, dimenticò se stesso e diventò il dolore stesso. Quando una persona è completamente assorta in qualcosa, si rivela silenziosamente il suo Vero Io…” (p. 32). L’invito a “strapparsi l’occhio” è quello a liberarsi dell’illusione, della pura formalità, e a vivere il risveglio spirituale con tutti se stessi. Cosa che fece Cristo morendo in croce. “Quando superai il koan «Gutei alza un dito», mi sembrò di avere delle orecchie più sensibili per ascoltare il «linguaggio del corpo» di Gesù crocifisso.” (p. 37).
            Kadowaki affronta poi un mutuo pregiudizio fra buddhisti zen e cristiani. “Certi cristiani, sentendo che lo Zen ignora la coscienza del peccato, lo considerano un insegnamento del demonio. Certi seguaci dello Zen pensano invece che i cristiani siano tormentati dal senso del peccato e che il cristianesimo sia una via del male.” (p. 39). L’autore affronta un nodo fondamentale in entrambe le tradizioni spirituali: la fonte del male, ovvero “la passione illusoria (sanscrito, kleśa), cioè quelle funzioni mentali che disturbano mente e cuore, come la cupidigia, l’ira, l’ignoranza, l’arroganza, il dubbio e le false opinioni. Nella terminologia cristiana, vengono chiamati i sette peccati capitali…” (p. 41). Ciò che, nel cristianesimo, è “ribellione a Dio”, nello Zen è “perdita del proprio Volto Originario”, o “natura illuminata”. L’uomo, insomma, perderebbe il contatto con la propria essenza, per l’interferenza di quelle funzioni mentali che dicevamo. In ambedue le religioni, “la conseguenza della caduta consiste in una opposizione tra l’individuo e gli altri, tra l’individuo e l’universo” (p. 42). Per emanciparsi dalle passioni illusorie, al cristiano si richiede la metanoia (p. 43): tradotta come “pentimento” o “conversione”, è più propriamente un cambio radicale di percezione del mondo e di sé. È lo sforzo di tendersi verso la “natura originaria” dell’uomo, che è lo stesso sforzo del praticante zen.
            Tornando alla questione del corpo, non è esso a doversi sottomettere all’anima, come troppo spesso pensano gli occidentali. “Il cristianesimo occidentale vuole vincere le passioni disordinate con la ragione e con la volontà: mediante l’esame di coscienza si individua l’egoismo e l’egocentrismo, poi si cerca di cambiare per mezzo della volontà” (p. 49). Consiglio, però, che può essere seguito solo da chi abbia di per sé una forza morale non comune - e comunque insufficiente: come insegna Freud, la psiche non può essere regolata dalla sola attività conscia. Del resto, “le passioni sono distorsioni, non solo dei desideri fisici e della carne, ma anche della ragione e della volontà. […] Anche le attività della ragione e della volontà sono prese dall’egoismo, così che è difficile rendersene conto, per quanto si rifletta su se stessi. Ecco perché si dice nello Zen: «Non si avverte l’odore della propria orina» (Hekigan-roku, Caso 77). […] è facile fermarsi al livello di pensieri di vanagloria sui risultati conseguiti” (p. 55). Ciò che Kadowaki ha appreso dallo Zen è che occorre lasciare da parte gli affaticamenti mentali (comprese le riflessioni su di sé) e “sedersi semplicemente”, in meditazione. Attraverso successive esperienze di illuminazione così conseguite, ci si libererà gradualmente dalle illusioni. Ciò permetterà anche di colmare il divario fra dottrina e fede, fra insegnamenti semplicemente appresi a mente e l’esperienza religiosa vissuta. 

            Per non incorrere nelle trappole del linguaggio e dei sofismi, anche Cristo scelse di rispondere col silenzio e l’azione imprevista. Fu così nel caso dell’adultera (Gv 8, 2-11). A scribi e farisei che gli proponevano una contrapposizione logica fra legge di Mosè e legge dell’amore, Cristo reagì collocandosi in una dimensione superiore a quel dualismo. Come Gutei, può esprimere tale “conoscenza trascendente” solo con il linguaggio gestuale (il dito che scrive per terra). “Il silenzio può sembrare senza senso, ma in realtà è pieno di significato. Con questo «significato senza senso» viene messa in dubbio e svuotata di senso la mentalità convenzionale della folla e dei farisei […] Si può dire inoltre che il «corpo» silenzioso di Cristo è anche una spada che dà la vita, perché proclama il suo desiderio profondo di salvare l’umanità…” (p. 80). “Spada che dà la vita” è una tipica espressione giapponese per esprimere lo shock che porta all’illuminazione (sui rapporti fra Zen e arte della spada, vedasi qui).
            Tra l’illuminazione e il superamento dell’egoismo c’è un legame a doppio filo. Come sottolinea Kadowaki, il praticante zen può illuminarsi solo rivivendo l’esperienza dei maestri, codificata nei koan. Per farlo, però, deve mettere da parte il proprio ego e mettersi nei panni dei suddetti maestri - cosa che si richiede anche quando c’è da comprendere la situazione altrui. Da “ricco” (di se stesso) deve farsi “povero”, per “passare nella cruna dell’ago” (l’ “incomprensibilità” dell’altro).
            Dato che l’illuminazione fa crollare la separazione illusoria fra “me” e “il resto del mondo”, si può dire che la nuova vita da essa aperta valga per tutto l’esistente, non solo per il singolo praticante. Arrivare alla propria natura originaria significa arrivare alla natura originaria di ogni cosa. In questo senso, Kadowaki legge anche la concezione cristiana dell’universalità della salvezza. Dato che la “salvezza” coincide col completo abbandono degli attaccamenti egoistici e del nozionismo, si può comprendere anche l’invito di Cristo ad “accogliere il regno di Dio come un bambino” (Mc 10, 13-16). Il bambino è colui che vive con tutto se stesso, che comprende con le viscere, senza sofisticazioni o pregiudizi. Sarebbe capace di comprendere anche che Buddha “è un bastone di sterco secco” (p. 134): perché anche le cose più “basse” e “sporche” vivono di quella vita che l’illuminato sa vedere.

            Attraverso la pratica dello Zen, Kadowaki ha trovato un modo per vivere la vita di Cristo, senza contraddizioni tra il “dire” e il “fare”. “Come un koan Zen, le parole di Gesù ci spingono a una conversione, perché moriamo alla nostra mentalità e vita attuale, per vivere realmente in una condizione di beata povertà. […] Se ascoltassimo le parole di Cristo con l’hara (= viscere), invece che con la testa, e ci lasciassimo investire dalla loro forza intrinseca, ne sarebbe trasformata tutta la nostra mentalità e la nostra vita.” (p. 141).

Scritto per Uqbar Love Quotidiano (5 aprile 2017).

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