Passa ai contenuti principali

Caro amico ti scrivo...

"NEI PAESI soggetti al regime comunista, come ricorderai, lo Stato possedeva ogni cosa. Le strade, i campi, le scuole, le case, gli ospedali, le fabbriche, le miniere, i tram, la metropolitana... Gestiva e, almeno in teoria, provvedeva a tutto, pagando ai lavoratori salari sì e no sufficienti a comprarsi i pochi generi alimentari che trovava sul mercato, e che spesso non bastavano a sfamarlo, a vestirlo, a ripararlo dal freddo. Un’economia complessiva e autoritaria che, nel corso di 70 anni che rimase in piedi, affossò e diffamò un’idea, quella del socialismo, che agli inizi del secolo scorso era sembrata una luce sfolgorante, che finì per trarre in inganno anche da noi una marea di brava gente che a quella giustizia aveva sinceramente creduto e che, alla fine del gioco, si trovò delusa e amareggiata. Andai in Russia la prima volta nel 1975. Ovunque incontrai lavoratori, insegnanti intellettuali arrabbiati e umiliati, in fila davanti a una vetrina vuota, o a una pila di patate. Uomini e donne disperati nel constatare che la loro voce, la loro presenza, la loro vita, non contavano nulla. Non contavano che i rappresentanti del governo che, impettiti nelle loro divise, non esitavano a dichiarare che la loro strada era giusta, che soltanto in quel modo, soltanto con quel rigore, si poteva creare uno Stato forte, indipendente, mentre rincorrevano armamenti sempre più sofisticati, affossando ogni espressione più elementare di libertà. Ogni tanto si levava la voce di un dissidente che poi finiva in Siberia. Ogni tanto circolava il libro di un contestatore clandestino, ogni tanto qualcuno si buttava sfiduciato da un balcone. In generale, però, la gente comune taceva e, vedendo in quella miseria la sintesi di un destino ormai immutabile, passando davanti ai tristi palazzi della Lubianka, chinava il capo come davanti a una chiesa. La paura rende prima prudenti poi muti.
La vita umana è un bene temporaneo.
Quando si alzò finalmente il coperchio che copriva manu militari quell’enorme disastro, erano passati 70 anni. Tre generazioni. Un brutto capitolo della storia d’Europa che nessuno dimentica. Dopo la deforestazione dalle mille aziende statali deficitarie (vendute o sovente svendute), la privatizzazione delle autostrade, delle Ferrovie, dell’energia elettrica, del gas... e persino delle latrine pubbliche (nonostante il continuo ribollire delle tasse) non c’è più servizio che non sia a pagamento. Se ti scappa, e non hai pronto un euro, cosa fai? Se per pagare la benzina devo vendere la macchina, dov’è la logica? Persino sul possesso di una decrepita automobile, di una casa modesta, acquistata con sacrifici e denaro che aveva già pagato le tasse, l’erario pretende una nuova imposta. Avevano ragione i sovietici? Meglio che i cittadini non possiedano nulla? E allora, in cos’è migliore questo libero mercato?
Mi dirai che da noi non c’è la Lubianka, che non esistono i Gulag, che i libri, i giornali, le idee e le merci circolano liberamente, e, poiché i partiti non fanno altro che farsi la guerra tra di loro, non pare proprio che, almeno per il momento, ci sia pericolo di dittatura.
Mi sono servito della citazione, senza troppo inoltrarmi nel contesto storico di quegli anni, semplicemente per ricordare che, anche da noi come nel resto del mondo, la vita è un bene temporaneo. Se mi carichi di tasse, se mi fai pagare anche l’aria che respiro, se, per far quadrare i conti dello Stato, ti apposti dietro l’angolo e, a fronte della minima infrazione, mi chiedi l’equivalente di una giornata di salario, se per entrare in macchina a Milano pretendi una gabella come nel medioevo, se, quando mi trovo in difficoltà mi perseguiti, mi costringi a vivere da miserabile, perché mai devo vivere? Chi ha ottant’anni e ha lavorato una vita, non può, nella speranza che un giorno tutto torni alla normalità, mettere indietro le lancette dell’orologio. Non lo vieta l’alta finanza, ma non lo consente il padreterno.
È vero che c’è gente (più di quanta non si pensi) che evade le tasse, ma siamo certi che se non lo facesse, l’incasso basterebbe a coprire le spese, gli sprechi, i debiti accumulati da un simile carrozzone? Ci sono tempi logici e tempi fisiologici. Non sempre i primi vanno d’accordo con i secondi.
Lo sai che nel nostro paese, secondo dai forniti dalla UIL, a fronte di un milione e trecentomila insegnanti, oltre un milione e trecentocinquantamila persone, a vario titolo e a vari livelli, vivono oggi di politica? Oltre 450.000 sono parlamentari, ministri, amministratori locali. Migliaia sono i consiglieri circoscrizionali e i membri dei CDA delle 7.000 società, degli enti,dei consorzi partecipati ai quali va aggiunta la massa di personale di supporto. Circa 318.000 sono le persone che hanno un incarico o una consulenza pubblica... I lavoratori del pubblico, con contratto a tempo indeterminato sono circa tre milioni e trecentomila. Sono tutti indispensabili? Pare che siano almeno 24.000 quelli in esubero. D’altro canto, anche se volessimo o potessimo sfoltire, portarli a un numero logico, come avviene in una normale struttura privata, dove cavolo li metteremmo?
Il solo fatto certo è che, requisendo di continuo con tasse, balzelli, imposte, accise, gran parte della paga dei contribuenti più poveri, li porti gioco forza sempre più nella stessa situazione dell’ex Unione Sovietica, con l’aggravante che qui le classi ancora ci sono, le disparità sociali sono macroscopiche
e il confronto si fa ogni giorno sempre più doloroso. Cosa faremo? La chiameremo Italia Sovietica? Ristabiliremo il servizio militare di leva, riapriremo le caserme (ora vuote) e creeremo un esercito di diseredati? Una gavetta di rancio è sempre meglio della zuppa che si dovranno tra poco mangiare alla mensa dei poveri o in solitudine sotto un ponte.
Mi ripeterai che si tratta di un’emergenza, che qui, o si rifà l’Italia o si muore! Dopo il 1861, molti milioni di lavoratori italiani provenienti da ogni regione furono costretti ad emigrare per cercare lavoro in tutti i Paesi del mondo. Repetita non semper juvant.
Negli ultimi vent’anni, in Italia, di governi tecnici ne abbiamo avuti tre: quello di Amato, famoso perché rapinò nottetempo il sei per mille dai conti correnti degli italiani, quello di Ciampi, a ridosso con lo scandalo di «mani pulite» e, infine, quello di Dini che, nonostante le buone intenzioni e una blanda riforma delle pensioni, non ebbe il risultato sperato. Nessuno di loro ha messo mano al debito pubblico, nessuno alla Giustizia... Un’infilata di governi tecnici che, senza mai raggiungere lo scopo, dimostra unicamente come da noi le crisi dell’economia e della politica siano cicliche.
C’era, ai tempi della guerra, un burattinaio che girava per i paesi in riva al Po con il suo teatrino ambulante, e rappresentava per noi bambini, a volte durante la stessa serata, due o anche tre diverse commedie. Dietro la tenda, lui e la figlia, si davano il cambio nel dare una diversa voce ai personaggi. Ma i burattini erano sempre gli stessi. Perciò, buoni o cattivi, avevano sempre le stesse facce, sia quando rappresentavano un personaggio comico che uno tragico.
Se si tratta davvero di rimettere in piedi il Paese, di far davvero quadrare il bilancio, di far scendere il debito pubblico, non sarà il caso di liberarci prima di tutto di coloro che, pur cambiando voce, sono gli stessi che hanno creato il disastro?
Non so che fine abbiano fatto, dopo i miserabili risultati ottenuti, i grandi economisti dell’URSS, ma mi domando spesso quale fine debbano fare i nostri, quelli che, a forza di sprechi, di furti, di malversazioni clientelari, hanno saputo ridurre il Paese in queste miserabili condizioni. Sono loro -destra, sinistra, o centro poco importa - che si presenteranno ancora alle prossime elezioni? Sono loro che vogliamo riportare al governo? Il nostro - si dice - è un Paese pacifico.
A costo di ripetermi, mi servo ancora una volta della medesima citazione per ricordare - casomai ce ne fosse bisogno-che anche da noi la vita è un bene temporaneo e... assai poco durevole. Come la nostra pazienza…"

Romano Franco Tagliati, Il Borghese, ottobre 2012

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

Il Cimitero di Manerbio: cittadini fino all'ultimo

Con l'autunno, è arrivato anche il momento di ricordare l' "autunno della vita" e chi gli è andato incontro: i nostri cari defunti. Perché non parlare della storia del nostro Cimitero , che presto molti manerbiesi andranno a visitare?  Ovviamente, il luogo di sepoltura non è sempre stato là dove si trova oggi, né ha sempre avuto le stesse caratteristiche. Fino al 1817, il camposanto di Manerbio era adiacente al lato settentrionale della chiesa parrocchiale , fra la casa del curato di S. Vincenzo e la strada provinciale. Era un'usanza di origine medievale, che voleva le tombe affiancate ai luoghi sacri, quando non addirittura all'interno di essi. Magari sotto l'altare, se si trattava di defunti in odore di santità. Era un modo per onorare coloro che ormai "erano con Dio" e degni a loro volta di una forma di venerazione. Per costituire questo camposanto, era stato acquistato un terreno privato ed era stata occupata anche una parte del terraglio