Chronos.
Sotto
il sole di giugno, la tua bocca è più fresca e più buia. Ti ricordiamo per
questo, per i genitali e la bocca. Gli uni hanno generato, l’altra ha divorato
i tuoi figli.
Saturno.
È strano
pensarti d’estate. Ma gli ultimi funerali importanti della mia vita sono caduti
proprio in questa stagione, quando alberi e mais verdeggiano prepotenti a
fianco delle tombe. Mundus patet:
sono spalancate le fauci della terra,
quelle da cui esce il grano nutriente – e che ci collegano ai nostri morti.
Bisogna fare attenzione a non caderci dentro. Soprattutto perché ci attraggono.
Ne sento il risucchio costante e
discreto sotto i piedi, accanto alla bara che presto vi entrerà. Questo giorno
mi sta regalando la lucida percezione di quell’antico sentimento, quello che ha
portato a coniare la parola “saturnino” e a collegare Saturno allo scuro, grave
piombo: il sentimento del vasto buio sotto i nostri piedi, quello da cui
proviene la ricchezza delle messi – a patto che venga nutrito, un giorno, dai
resti di tutto ciò che ha avuto una vita. Oggi come un tempo, il Padre divora i
figli e il suo ventre – una volta sazio – diviene fecondo.
Dovrebbero essere pensieri tristi,
ma non lo sono. Colei che sta per scendere nella bocca del vecchio dio ha perso
tutto quello che poteva richiamare i miei affetti e le mie emozioni. Anche dal
punto di vista strettamente fisico era irriconoscibile. Saturno si prenderà ciò
che sarebbe stato troppo pesante per lei per portarselo appresso ulteriormente –
ma la persona, l’essere, non è nella scatola di legno. Il suo essere ha rotto gli argini e si è propagato: nei figli e nei nipoti
che sono scaturiti da lei, in tutte le vite che si sono incrociate con la sua e
il cui corso è silenziosamente mutato, grazie a quell’incontro. Vista con gli
occhi della morte, l’esistenza umana non è una linea, ma un tappeto di fili
tanto numerosi e serrati da trovare impossibile disegnarne un inizio e una
fine.
La discesa della bara nella fossa,
nella sua semplice materialità, suscita la suspense
di una porta che si apre, dell’ingresso in un altro che ci invita – e che ci sfida col suo buio. O Mundus Cereris, che sei più grande dei
nostri dolori e delle nostre paure…!
Mentre mi allontano, so già che
scriverò. Le tombe sono fertili di poesia. Vorrei che fossero fertili anche di
erba, fiori e frutta, anziché congelate da lastre di pietra. Il Mundus si richiude; le sue spore danzano
nell’aria greve.
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