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Ha ragione Rousseau

Qualche tempo fa, un mio amico ha affermato che “Rousseau era in un certo senso anti illuminista”, perché riteneva che il popolo non avesse anima e soggettività politica. 

            Peccato che l’Illuminismo sia esattamente questo, come illustra anche David Van Reybrouck.
            Quel clima culturale, quella costellazione di pensatori complessivamente ricordati come Lumières era l’espressione della borghesia benestante e colta, non certo di contadini e manodopera. La rivendicazione di spazi politici e peso decisionale negli affari pubblici riguardava chi era conscio di detenere competenze tecniche specialistiche, potere finanziario, iniziativa imprenditoriale e conoscenze filosofiche: quello che, oggi, designeremmo genericamente come “sapere accademico”.
            Che fossero esuli o coccolati da monarchi assoluti, laici o ecclesiastici come Giuseppe Parini, gli illuministi non proposero il suffragio universale così come lo conosciamo oggi. Quello è un prodotto squisitamente novecentesco. Il loro ideale politico oscillava tra la monarchia illuminata e la repubblica oligarchica di stampo antico-romano o spartano. A prendere decisioni per tutti doveva essere chi deteneva i Lumi, ovvero quel “sapere accademico” di cui sopra.
            Contadini, bottegai e manodopera non hanno i Lumi.
In quest’ottica, possono solo scegliere di sottomettersi a “chi ne sa più di loro”, o venirne schiacciati “per un bene maggiore”. La Francia rivoluzionaria ha visto la repressione sanguinosa della rivolta di chi non accettava l’imposizione di un sistema fiscale nuovo o del servizio di leva che sottraeva braccia al lavoro.
            Né crediate che i giovani epigoni dei “borghesi illuminati” siano migliori.
«Io, se mi trovo davanti il contadino vandeano, gli sparo»; «Chi gioca alla Vandea finisce male». Pare uno scherzo, ma sono le loro battute favorite. Dopodiché, ritornano tranquillamente a parlare di tolleranza e umanità, a criticare i cristiani fondamentalisti perché “se la prendono coi più deboli”. Di essere i loro eredi o i loro rivali non li sfiora nemmeno il dubbio. E, se li sfiora, lo tacciono, o s’inventano “di essere comunque più evoluti di loro”, perché “hanno eliminato dal proprio pensiero le superstizioni” - ovvero, il Dio personale e trascendente. Sono ossessionati dal desiderio di “distinguersi dal popolino”; lo tacciano di “qualunquismo”, perché - anziché di filosofia - si occupa di “baggianate” come mangiare, lavorare e sopravvivere. Atteggiamento aristocratico, da “governo dei migliori”, nel senso etimologico del termine. È un’aristocrazia dell’istruzione e non genealogica, ma tant’è.
Sono giustificazionisti verso la carneficina della Rivoluzione Francese, perché “ha eliminato i privilegi dell’Antico Regime”. In compenso, è un “barbaro”, un “intollerante” o un “bigotto” chi ha combattuto i soprusi capitalisti, o chi si permette di ricordare che le Crociate nacquero dalla solidarietà dei proto-europei contro le violenze sui pellegrini in Palestina.
            Cicero pro domo sua, insomma. Ci sono sangui compianti più degli altri - perché versati per ragioni che non ci interessano. L’importante è non estendere i propri lumi fino a rendersi conto che non esiste il bene di tutti. Esso è sempre e solo bene di un singolo o di una parte, che vogliono legittimare i propri interessi. E sia benedetta la “limitatezza” del “popolo”, quando rifiuta i filosofeggi infinocchiatori - quelli di chi vuol “rinnovare l’Italia” a proprio beneficio e in senso antidemocratico.

            Comunque, caro amico-della-prima-riga, Rousseau ha ogni ragione per essere ricordato fra gli illuministi. Con tua buona pace.

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