Il
Cuore deamicisiano (1886), alla
pagina del 14 giugno, riporta questo commovente componimento:
Salutala così la
patria, nei giorni delle sue feste:
- Italia, patria
mia, nobile e cara terra,
dove mio padre
e mia madre
nacquero e
saranno sepolti,
dove io spero di
vivere e di morire,
dove i miei
figli cresceranno e morranno;
bella Italia,
grande e gloriosa da
molti secoli,
unita e libera
da pochi anni;
che spargesti
tanta luce
d’intelletti
divini
sul mondo […]
io ti venero e
t’amo con tutta l’anima mia,
e sono altero
d’esser nato da te,
e di chiamarmi
figliuol tuo.
[…]
t’amo e ti
venero tutta
come quella
parte diletta di te,
dove per la
prima volta vidi il sole
e intesi il tuo
nome. V’amo tutte di un solo affetto
e con pari
gratitudine,
Torino valorosa,
Genova superba,
dotta Bologna,
Venezia
incantevole, Milano possente;
v’amo con egual
reverenza di figlio,
Firenze gentile
e Palermo
terribile,
Napoli immensa e bella,
Roma
meravigliosa
ed eterna.
[…]
Giuro che ti
servirò, come
mi sarà
concesso, con l’ingegno,
col braccio, col
cuore,
umilmente e
arditamente;
e che se verrà
il giorno in cui dovrò dare
per te il mio
sangue e la mia vita, darò il mio sangue
e morrò,
gridando al cielo il tuo santo nome
e mandando
l’ultimo mio bacio
alla tua
bandiera
benedetta.
(Edizione consultata: Corraini Editore, Mantova
2000, pp. 225-227)
Passando
al 20 dicembre 2016, il linguaggio risulta leggermente
mutato. Sul numero di quel giorno, il Giornale
di Brescia, a p. 5, riporta infatti una boutade
del ministro del Lavoro, Giuliano
Poletti, divenuta giustamente famosa: centomila giovani se ne sono andati
dall’Italia, ma “non è che qui sono rimasti 60 milioni di «pistola»… Conosco
gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente
questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi.” Un concetto che,
volendo, può anche essere considerato patriottico, ma che fa comprendere come i
ragazzi italiani non considerino più lo Stivale il luogo dove loro e i loro
figli, necessariamente, cresceranno e
morranno. Né la cosa sembra tormentare più di tanto la classe politica.
Un altro leggero salto all’indietro
ci riporta all’altrettanto nota lettera di Pier
Luigi Celli, direttore generale della Luiss: “Figlio mio, lascia questo Paese” (30 novembre 2009). Un pezzo il
cui succo è: “Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia
possibile stare con orgoglio.” Per il resto, possiamo considerarla purissima
prosa deamicisiana.
Cos’è successo, nel frattempo?
È
successo ciò di cui si era già accorto, nel 1972, Eugenio Cefis (Cividale del Friuli, 1921 – Lugano, 2004): imprenditore italiano, che fu consigliere
dell’AGIP e presidente dell’ENI e della Montedison, nonché fondatore della
loggia massonica P2. Non era quel che si dice un personaggio limpido: per
diventare presidente della Montedison (e quindi padrone della chimica
italiana), utilizzò denaro pubblico destinato all’ENI. In più, Pier Paolo Pasolini fu assassinato (con retroscena tuttora misteriosi) proprio mentre
stava lavorando a Petrolio, romanzo
ricchissimo di riferimenti non casuali a Cefis e alla sua carriera. Nonostante
fosse un personaggio sulfureo (o, forse, proprio per questo), era dotato della
capacità di riconoscere i segni dei tempi. Anche perché era fra coloro che dei
tempi guidavano il corso. Particolarmente illuminante per noi (come lo fu per
Pasolini) è il suo discorso del 23 febbraio 1972 all’Accademia militare di
Modena: La mia patria si chiama multinazionale.
Il nocciolo del discorso è questo: gli Stati nazionali sono ormai tramontati, come
ente politico in grado di decidere i destini del mondo. Perché questi ultimi
sono determinati dall’economia, dalla capacità di assicurare il benessere; e
gli enti in grado di farlo hanno diffusione internazionale. Anche i militari,
secondo Cefis, non dovrebbero più difendere i confini nazionali, ma la
Costituzione repubblicana: insomma, mantenere lo status quo che garantisce il libero mercato e la ricerca
tecnologica. Niente più ultimo bacio alla
bandiera benedetta, combattendo contro un’altra nazione.
“Spesso Re e Imperatori temevano che
la loro posizione di potere fosse indebolita dalla organizzazione
internazionale della Chiesa, dalla sua influenza sulle politiche nazionali e
dalle sue immense ricchezze. […] Oggi nessun Paese industriale avanzato può
creare Chiese indipendenti, cioè isolarsi totalmente dalle imprese
multinazionali e internazionali, perché questo significa rinunciare a tutti i
vantaggi che tali imprese possono offrire.” (Eugenio Cefis, La mia patria si chiama multinazionale,
riportato in: Carla Benedetti - Giovanni
Giovannetti, Frocio e basta. Pasolini,
Cefis, Petrolio, Milano 2016, Effigie, p. 297). Il libero mercato come forma di potere, insomma. Non si può nemmeno
parlare di “complotto”, in questo caso: la situazione è palesissima. E Cefis
cita un altro paragone storico, che cade a proposito: “…come Voi sapete, il
concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel tempo tanto che,
anche all’epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini che sapevano di
essere italiani e non si consideravano invece semplici abitanti del Regno delle
Due Sicilie o del Granducato di Toscana.” (Ibid.,
p. 291).
Ecco che sapore ha rileggere Cuore oggigiorno: quello del rivivere
una situazione in cui la borghesia abbiente e istruita realizza un ideale di
“unità” sconosciuto ed estraneo agli altri ceti, ma funzionale a un’economia
del benessere. Ai tempi di De Amicis, la sfida era indurre un torinese a
percepire come “patria” anche Roma e Palermo. Oggi, si tratta di far sentire
gli italiani “a casa” a Parigi o Berlino: sia quelli che lo desiderano
personalmente, sia quelli che non hanno mai chiesto cotanta grazia. Riusciranno
i De Amicis di oggigiorno a garantire il paradiso sovranazionale, con diritti
civili, lavoro e gratificazione per tutti e (dulcis in fundo) rispetto dell’ambiente e del suolo? Ai posteri l’ardua sentenza, come disse
un altro patriota illuminato. Emmanuel Macron e Angela Merkel si sono già dichiarati
disponibili a mutare i trattati europei, per salvare la patria multinazionale.
Nel frattempo, fra Poletti e Celli, va scrivendosi il Cuore del terzo millennio. Con tanto di discutibile retorica.
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