“Nel
villaggio successe una casa del diavolo quando volevano mettere il dazio sulla
pece. […] Mastro Turi Zuppiddu si dimenava sul ballatoio colla malabestia e il
patarasso in pugno, che voleva far sangue, e non l’avrebbero trattenuto nemmen
colle catene. La bile andava gonfiandosi da un uscio all’altro come le onde del
mare in burrasca. Don Franco si fregava le mani, col cappellaccio in capo, e
diceva che il popolo levava la testa; e come vedeva passare don Michele, colla
pistola appesa sulla pancia, gli rideva sul naso. Anche gli uomini, a poco a
poco, s’eran lasciati riscaldare dalle loro donne, e si cercavano l’un l’altro
per mettersi in collera; e perdevano la giornata a stare in piazza colle mani
sotto le ascelle, la bocca aperta, ad ascoltare il farmacista il quale
predicava sottovoce, perché non udisse sua moglie che era di sopra, di fare la
rivoluzione, se non erano minchioni, e non badare al dazio del sale o al dazio
della pece, ma casa nuova bisognava fare, e il popolo aveva ad essere re. Invece
certuni torcevano il muso e gli voltavano le spalle, dicendo: «Il re vuol
essere lui. Lo speziale è di quelli della rivoluzione, lui, per affamare la
povera gente!» E se ne andavano piuttosto all’osteria della Santuzza, dove c’era
buon vino che scaldava la testa e compare Cinghialenta e Rocco Spatu facevano
per dieci. Ora che si ricominciava la canzone delle tasse si sarebbe parlato di
nuovo di quella del pelo, come la
chiamavano la tassa sulle bestie da soma, e di aumentare il dazio sul vino. «Santo
diavolone! stavolta andava a finir male, per la madonna!»
Il vino buono faceva vociare, e il
vociare metteva sete, intanto che non avevano ancora aumentato il dazio sul
vino; e quelli che avevano bevuto levavano i pugni in aria, colle maniche della
camicia rimboccate, e se la prendevano persin colle mosche che volavano.
«Questa è come una festa per la
Santuzza!» dicevano. Il figlio della Locca, il quale non aveva denari per bere,
gridava lì fuori dall’uscio che voleva farsi ammazzare piuttosto, ora che lo
zio Crocifisso non lo voleva più nemmeno a mezza paga, per quel suo fratello
Menico che s’era annegato coi lupini. Vanni Pizzuto aveva anche lui chiuso la
bottega, perché nessuno andava più a farsi radere, e portava il rasoio in
tasca, e vomitava improperi da lontano, e sputava addosso a coloro che se ne
andavano pei fatti loro, coi remi in collo, stringendosi nelle spalle.
«Quelli sono carogne, che non gli
importa un corno della patria!» sbraitava don Franco, tirando il fumo dalla
pipa come se volesse mangiarsela. «Gente che non muoverebbe un dito pel suo
paese.»
«Tu
lasciali dire!» diceva padron ‘Ntoni a suo nipote, il quale voleva rompere il
remo sulla testa a chi gli dava della carogna; «colle loro chiacchiere non ci
danno pane, né ci levano un soldo di debito dalle spalle.»”
GIOVANNI VERGA
(Da: I
Malavoglia, a cura di Nicola Merola, 1980,
Garzanti, pp. 96-99)
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