Se
c’è qualcuno in grado di spiegare a grandi e piccini la solitudine e la Sehnsucht dell’artista, quello è Tim
Burton. Lo dimostra in Edward Mani di Forbice, ma ancor più –a mio avviso- in The Nightmare Before Christmas.
Il mondo del poeta –o, meglio,
dell’attore di teatro- è quello della notte, in cui ogni illusione ed ombra
assume concretezza. Ecco, dunque, che Burton piazza il suo artista-dandy nella
Città di Halloween. L’atmosfera della festa, con la sua familiarità allo
spettatore, lo catapulta senza sofisticherie nella sfera del lunare, del
misterioso, dell’oscuro. Il tempo e il luogo della storia sono il non-tempo e
il non-luogo degli archetipi, delle esperienze note all’Uomo in quanto tale,
che consacra gli aspetti fondamentali del ciclo della vita nelle feste. Anche il suo lato più tetro (la
morte, la paura) merita una consacrazione –che è appunto quella residua nella
festa di Halloween.
Di questo culto l’attore-poeta è il
gran sacerdote. Jack Skellington (Skeletron, nel doppiaggio italiano) porta
l’anima nel suo mondo di poveri guitti, come faceva Sibyl Vane in The Picture of Dorian Gray. Però, comincia
a essere stanco del suo universo di tombe e fantasmi. La melancolia, anche se
genera l’arte, è logorante. Quell’esistenza di ombre è vuota, un rosario di
anni sempre uguali. Jack ha bisogno di rompere il cerchio del sempre. Come Sibyl Vane, deve lasciare
l’arte per la vita.
La trova all’incrocio fra diversi
mondi, diverse feste –ognuna
riassunto d’un aspetto umano e d’un modello di vita. La curiosità (I curiosi vanno all’inferno!) porta Jack
a esplorare un universo completamente diverso dal suo: quello del Natale. Lì,
ogni cosa è lieta, calda, spensierata. L’artista si ritrova bambino. A lui,
quella magia è possibile.
Decisamente
meno facile è riprodurre l’incantesimo a casa sua. Gli abitanti di Halloween
pendono dalle sue labbra, ma non parlano la sua stessa lingua. Comincia,
allora, il travaglio dell’artista, che deve trasporre in forma intelligibile quel certo non-so-che che gli infiamma
l’anima. Jack tenta il metodo scientifico. Ma, palesemente, non è il suo mestiere. Esso appartiene
allo Scienziato Pazzo, cinico e solitario, che si sente padrone d’ogni cosa
nella propria sapienza prometeica. Impegnato com’è a chiudere tutto in formule
e provette, gli sfugge completamente la chiave delle relazioni affettive. Per
questo, gli sfugge di mano anche Sally.
Sally è la sua creatura: guarda caso,
una bambola. Una figurina umana pensata per essere posseduta e manipolata a
piacimento, per la compagnia come per i servigi quotidiani. Ma Sally si rifiuta
alle pretese del proprio Pigmalione, come fa ogni essere che abbia un’anima.
L’indifesa bambola di pezza scopre il proprio cuore e il proprio cervello e ciò
la inebria irresistibilmente, finché lei non impara anche a gestire il proprio
corpo di stracci. Sally conquista il diritto a innamorarsi. E s’innamora
proprio di lui, del Re delle Zucche che ha perduto il gusto di dar vita alle
proprie creature. Due sterilità diverse e speculari, quelle dell’artista e
quelle del Prometeo, ma entrambe saranno guarite dal buonsenso amorevole di
Sally. Lo Scienziato Pazzo, abbandonato l’orgoglio, accetterà il consiglio di
lei e sarà in grado di donare finalmente metà di se stesso, per rompere la
solitudine. Con Jack, sarà tutto più difficile. La piena del suo ego è
inarrestabile. Attestata l’inutilità del metodo scientifico, il Re delle Zucche
si abbandona completamente all’irrazionalismo (Posso ricreare il Natale qui, se lo sento e ci credo!) e
all’epigonismo (Mi basta ricostruire
costumi, slitta e regali!). Inutile cercare obiezioni da parte degli abitanti
di Halloween: sono completamente dominati dalla personalità del loro idolo.
Curiosamente, l’unica a criticarlo è proprio colei che lo ama e lo comprende di
più. Si dice che l’amore renda ciechi. Il vero
amore si distingue, piuttosto, dal contrario.
Inutile
dire che il grande spettacolo di Jack
è destinato al fallimento. Anche con barba, berretto e abito rosso, il Re delle
Zucche non somiglia a Babbo Natale più di quanto una scopa di saggina non
somigli a una damigella. La ὕβρις di Jack lo porta alla stessa sorte
dell’Ulisse dantesco: una caduta abissale dal suo folle volo. Il suo grido ciecamente gioioso (Buon Natale a tutti! E buona notte!) mentre rovina nel vuoto è d’un
umorismo terribile. Sic transit gloria
mundi.
La
morte, però, restituisce Jack a se stesso. Fra le braccia d’un angelo in pietra
–come fra quelle d’uno psicopompo- comprende la propria cecità e si vede realmente per la prima volta. Ora,
può sconfiggere l’ombra di se stesso: il Bau-Bau (Oogie Boogie, in lingua originale), incarnazione del Trucco di
bassa lega, che è il più grande nemico dell’arte (e dell’arte di vivere). Riecheggia, idealmente, il grido di Louis di
fronte a Santiago in Interview with the
Vampire: Trickster! Buffoon! In alcune scene rimosse, il Bau-Bau avrebbe
dovuto rivelare, sotto le proprie spoglie, lo Scienziato Pazzo. Ogni forma di
malvagità, forse, si riduce al trasformare l’altro in un oggetto per i propri
giochi di destrezza. Un rischio al quale l’artista carismatico si avvicina
troppo.
Jack
è tornato a casa. E il ritorno a casa
ci vede sempre completamente nuovi. Lui non è più l’istrione dalla trista
figura, ma l’Artista Felice che
stringe il proprio vero amore. Che ciò avvenga nella terra delle tombe e delle zucche
ghignanti poco conta.
Non
trascurare il tuo compito
per
intraprenderne un altro,
per
quanto grande possa essere.
Scopri
il tuo compito
e
dedicati a esso con tutto il cuore.
Dhammapada, XII
– 157/16.
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