Passa ai contenuti principali

La tela di Penelope

Leggendo il Catechismo della Chiesa cattolica, si rimane solitamente colpiti (o intimoriti) dalla chiarezza adamantina dell’articolazione, dall’impressione di compattezza e coerenza che la mastodontica opera vuole dare. Io, invece, mi sono soffermata su quello che sembrerebbe relegato ai margini: le note e le fonti. Perché, a pensarci bene, è in esse l’essenza dell’opera: in quel formicaio di menti che hanno pensato, elaborato, scritto, compendiato, raccolto, per più di duemila anni. Il grosso volume che pesa sul mio tavolo non avrebbe mai potuto nascere, senza l’eredità di testi e documenti che l’ha preceduto. Esso non è che il risultato della volontà di spremere un succo coerente dalla costellazione di autori diversissimi che hanno fatto la storia della dottrina cattolica. Ma questa “coerenza” è stata posteriore e derivata, rispetto agli sforzi coraggiosi di esprimere pensieri su Dio e sull’uomo in relazione a Lui.
            “Cattolico”, per l’appunto, è tutto quanto è καθολικός: “generale, universale”. Il cristianesimo cattolico si distingue per il tentativo di elaborare una dottrina quanto più possibile aliena dal particolarismo e tendente a ricoprire i diversi ambiti della vita umana. Questo sforzo ha ben visto battaglie dottrinali di definizione dell’ortodossia; ma ciò che ha arricchito quello che, ora, è considerato patrimonio del cattolicesimo è stata la capacità di riassorbire culture precedenti e/o diverse. Qualcuno parla come d’uno scandalo degli “elementi pagani” presenti nel culto cristiano: certe coincidenze nel calendario e nelle feste, folklore, somiglianze con miti e riti di altri popoli o altre epoche. Ci si può stupire finché si voglia di trovare la raffigurazione di Eracle e Alcesti tra dipinti paleocristiani, o di trovare concetti stoicheggianti o platonizzanti in bocca a chi si ritiene “lontano dal paganesimo”. Ma è stata proprio questa capacità di rileggersi continuamente alla luce del “diverso” a rendere il cattolicesimo una dottrina ricca e articolata, capace di far uscire il cristianesimo dalla cerchia del “popolo eletto” e di renderlo accessibile a mondi che non attendevano alcun Messia.
            Forse, anche l’innamoramento narcisistico per il proprio nitore teoretico sta rendendo oggi difficile a questa enorme tela di Penelope continuare a tessersi. Certo, molti di quelli che si dicono cattolici hanno ricevuto il battesimo “automaticamente” e praticano una religiosità abitudinaria, più per consolazione o quieto vivere che per fede. Altri, a causa della secolarizzazione, ritengono poco interessante o addirittura nocivo interessarsi a qualcosa che non è più strettamente necessario per essere socialmente accettati –e accettabili. Altri ancora, per difendere la propria fede, ricorrono a quell’amore narcisistico di cui sopra: Guardando nello specchio del mio credo, trovo qualunque risposta.
            Per ravvivare la “tela di Penelope” del cattolicesimo, bisognerebbe alzare gli occhi dallo specchio. Non è un atto da “modernisti” o da opportunisti. Rivitalizzare una religione non significa “ammodernarla”, come si farebbe con un salotto. L’ammodernamento è un fatto di marketing, che lucida la superficie trascurando i contenuti. Non è però sufficiente neppure concentrarsi sulla “restaurazione”: essa è adatta ai bei reperti di un tempo andato, ammirevoli forse, ma pur sempre mummificati.
            È disperatamente necessario un animo cristiano con un forte senso del Trascendente, quello davanti a cui si arresta perfino la Parola con la “P” maiuscola: quello che conferisce una sete fortissima di continuare ad apprendere e comprendere sia l’umano che il divino, perché fa toccare la limitatezza dell’intelletto mortale. Sono necessari cristiani senza “sindrome di accerchiamento”, che vedano nell’altro il “prossimo” prima ancora che il nemico; che, anche nel caso in cui incontrino un autentico nemico, non si facciano sopraffare dalla paura, perché essa è la negazione dell’Amore che dà senso al loro agire. “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. […] Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale  merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.” (Mt 5, 20-48).
            Davanti al “postmodernismo”, il cattolico –troppo spesso- perde la propria identità o, al contrario, si arrocca. Ho visto begli ingegni lasciarsi cadere nel pessimismo, nell’amarezza e nel rancore contro un mondo che sembra rifiutarli in quanto cristiani. Ho visto altri rifugiarsi in un rigorismo astratto, in interminabili discussioni sull’ortodossia di questa o quella teoria.
            Un cristiano non vede “teorie”. Vede le persone che dietro di esse si celano. Avverte i bisogni o i pianti che pulsano dietro un’istanza, una bandiera. Non sposa la lettera delle teorie eterodosse, ma non è neppure sordo alla voce del prossimo. Non saranno i qualunquisti, né gli iper-ortodossi a salvare la Chiesa. Saranno coloro che riprenderanno in mano la tela di Penelope, senza voler per forza compiacere il “mondo”, ma anche senza sentirsi ricattati moralmente dalla paura di essere “eretici”. Neppure vorranno farsi maestri, ma soltanto portare al prossimo un aiuto che vada oltre il pietismo, le condoglianze astratte, il sentimentalismo. Avranno anche un forte senso della “società”, ovvero dei rapporti che legano gli uomini fra loro e dell’influsso che essi hanno sui comportamenti del singolo (vivere in un’ἐκκλησία, del resto, non incentiva forse questo tipo di sensibilità?). Non temeranno la convivenza con altre religioni o filosofie, perché in ciascuna troveranno la propria stessa tensione verso il Trascendente. Né vedranno la multiculturalità come una minaccia, perché i loro orizzonti saranno “universali” fin da principio. Soprattutto, si terranno lontani dalla tentazione di “imporre la verità”, perché questo atteggiamento è una pericolosa maschera dell’amor proprio –un insidioso “egoismo di gruppo” (“Noi stiamo dalla parte della ragione e tu lo devi riconoscere!”). Saranno, in altre parole, pienamente ed etimologicamente cattolici.

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

Il Cimitero di Manerbio: cittadini fino all'ultimo

Con l'autunno, è arrivato anche il momento di ricordare l' "autunno della vita" e chi gli è andato incontro: i nostri cari defunti. Perché non parlare della storia del nostro Cimitero , che presto molti manerbiesi andranno a visitare?  Ovviamente, il luogo di sepoltura non è sempre stato là dove si trova oggi, né ha sempre avuto le stesse caratteristiche. Fino al 1817, il camposanto di Manerbio era adiacente al lato settentrionale della chiesa parrocchiale , fra la casa del curato di S. Vincenzo e la strada provinciale. Era un'usanza di origine medievale, che voleva le tombe affiancate ai luoghi sacri, quando non addirittura all'interno di essi. Magari sotto l'altare, se si trattava di defunti in odore di santità. Era un modo per onorare coloro che ormai "erano con Dio" e degni a loro volta di una forma di venerazione. Per costituire questo camposanto, era stato acquistato un terreno privato ed era stata occupata anche una parte del terraglio