Entrambi provengono dai fumetti e sono stati rappresentati dal cinema. Entrambi sono temibili. Vivono in metropoli pericolose e fatiscenti, perfette rappresentazioni dell’ “inferno dei viventi”. E hanno volti cadaverici truccati in maniera pagliaccesca, che ispira il terrore anziché la risata.
Ho voglia di scrivere questo pezzo da tempo, dopo aver pubblicato Non può piovere per sempre e Joker: la risata di molte follie. Sono due recensioni cinematografiche sul mio blog e hanno qualche annetto, ormai. Ma i personaggi di cui parlano non scompaiono certo dalla memoria (e non solo dalla mia).
Il Corvo di James O’Barr è uno dei miei graphic novel preferiti, mentre del Joker conosco solo l’episodio intitolato Batman: The Killing Joke (1988). È comunque uno degli episodi più memorabili e più profondi, dato che esplora il tema della follia e della sua origine.
Quello che mi ha portato a confrontare questi due personaggi, oltre ai motivi espressi all’inizio, è il loro essere “maschere nude”: non indossano alcunché sul viso, ma i loro volti stessi sono cristallizzati e caricaturali, con un innaturale sorriso. Più che uomini, sono fantasmi, visto che il loro dolore e la loro violenza li separano da quel contesto sociale che ci rende persone e viventi.
Ecco, dunque, che la loro “maschera naturale”, come tutte le maschere, dà loro una forma intelligibile e permette loro di manifestarsi agli occhi altrui, come in un rituale che mette in contatto i mortali con esseri altrimenti invisibili. Oltre a ciò, la maschera li “consacra” come “figure assolute”, astratte dal tempo e dallo spazio per divenire immagini di esperienze universali: la solitudine, la follia, la nemesi.
Il Corvo è un fantasma in senso alquanto letterale, visto che torna dalla morte per vendicare lo stupro e l’omicidio della fidanzata. Il suo trucco è simile a quello di un pagliaccio, ma ricorda anche Pierrot, la maschera del sofferente per amore. Niente di più azzeccato. Mentre distribuisce amara ironia a piene mani, forte del suo distacco dalla vita, cova un sentimento di dolore amoroso che è ormai l’unico nucleo rimasto della sua personalità. Proprio perché animato da un sentimento d’amore, non può essere dipinto come un personaggio totalmente negativo. Anzi, è l’eroe, il “buono” della storia, mentre i “cattivi” sono coloro che hanno smarrito qualsiasi traccia di umanità.
Insomma, il male (secondo questa vicenda) non consiste nel provare odio: la sua presenza conferma quantomeno che il nostro cuore funziona ancora. Il male vero è la sostituzione di qualsivoglia sentimento con le mere pulsioni all’arricchimento, alla sopraffazione e allo sfogo bestiale. Il Corvo non si sente in colpa, mentre trucida l’uno dopo l’altro i carnefici della sua donna; né ci sentiamo in colpa noi, mentre assaporiamo il riflesso della sua soddisfazione. Ci si sente in colpa quando si colpisce un nostro simile, non quando ci si libera di un ripugnante pupazzo. Il Corvo non è presentato come un serial killer, ma come un salvatore sofferente – tanto che, nel graphic novel, ci sono espliciti accostamenti fra lui e Cristo. Assume anche atteggiamenti protettivi verso chi è vulnerabile e ferito; è in grado di risvegliare coscienze e di rimettere in carreggiata esistenze alla deriva. Insomma, dietro la sua maschera, possiamo incontrare un assassino o un angelo: dipende tutto da cosa coviamo dentro di noi. La sua maschera è anche uno specchio.
Parecchio diverso è il caso del Joker, che si colloca decisamente sul versante del male e del crimine. Il suo nome stesso rimanda alla carta del jolly joker: la carta che può essere tutto, perché non è niente di per sé. In effetti, questo personaggio conosce una varietà d’interpretazioni notevole – tutte però giocate sulla creatività sadica e sul vuoto di sentimenti che lo contraddistinguono. In questo, è simile ai “bersagli” del Corvo: loro non si truccavano in quel modo grottesco e non indossavano completi sgargianti, ma erano totalmente depersonalizzati… come lui. Insomma, il male assoluto esiste: è l’incapacità di connettersi con gli altri, per la mancanza di connessione con se stessi. Se ci si riduce a uno “zero umano”, a una mera maschera che sorride per mancanza d’altre espressioni… come si può dar posto a solidarietà, empatia, senso etico? Queste tre cose sono possibili nel momento in cui ci si percepisce quali persone, con volontà, emozioni e limiti, e si vedono anche gli altri come tali. Se ci si riduce a un jolly joker, la percezione di noi stessi (fatta delle tre cose appena elencate) diviene molto vaga e così pure quella dell’ “altro da sé”. L’unica forma di relazione possibile diventa quindi l’abuso, per soddisfare necessità basiche o per titillarsi il cervello. L’ “altro” diventa una figura fantasmatica, indistinguibile da fantasie e proiezioni. E le figure di fantasia, si sa, non provano dolore, né ispirano freni etici… sono solo giocattoli più o meno gratificanti.
La particolarità di Batman: The Killing Joke consiste nel farci conoscere il Joker… quando non era ancora il Joker. Quando era una persona, con un nome, una fisionomia… e una famiglia in crescita. Era un comico, povero ma felice; sua moglie lo amava ed era in attesa di suo figlio. Una scelta gli fu però fatale: allearsi con una banda di criminali per guadagnare una somma che gli avrebbe permesso di mantenere il bambino. Questo, unito a un incidente, lo trasformò in un mostro nel giro di ventiquattro ore. Basta dunque un tempo tanto breve ad effettuare la demolizione di un uomo?
Il ruolo degli eroi positivi, in questo episodio, è dimostrare che non è così. E che la follia può essere anche quella di Batman, che si è inventato un’ulteriore maschera per esprimere il suo impossibile desiderio di un mondo sicuro e giusto. Il “buono” e il “cattivo” finiscono per ridere insieme: non per allegria, ma per un’esplosione di consapevolezza. Quella di essere entrambi pazzi… perché la follia, a questo mondo, è quasi inevitabile. Ma non tutti impazziscono allo stesso modo – e questa, probabilmente, è la distinzione fra bene e male.
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