1) Hai già raccontato innumerevoli volte del modo peculiare in cui ti è venuta l'idea per il tuo fortunatissimo libro. Ti va di raccontarlo anche ai lettori di questo blog?
2) Quali fonti (orali, scritte...) hai impiegato per ricostruire la vicenda?
La ricerca delle fonti è
stata abbastanza facile, in realtà. In quei giorni, di Bartali e del suo
impegno a favore degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale se ne parlava
un po’ ovunque, specie su giornali autorevoli e documentari televisivi. Ma la
fonte principale per la mia storia è stato senza dubbio il
fascicolo ufficiale sul sito della Regione Toscana, che in prima persona
(se si può dire per una Regione…!) si era spesa affinché alla memoria
di Gino Bartali venisse conferita l’onorificenza di Giusto fra le Nazioni. Non
so se sia tuttora presente sul sito ufficiale della Regione - immagino di sì -
ma il fascicolo in questione conteneva tutti gli elementi ufficiali, appunto,
tra testimonianze, documentazioni e ricostruzioni che hanno portato lo Stato di
Israele, tramite lo Yad Vashem, al conferimento dell’onorificenza in questione.
3) Non dimentichiamo che La bicicletta di Bartali è un libro per bambini. Quali difficoltà si possono incontrare nel parlare della Shoah ai più piccoli? O, per certi versi, è addirittura più facile?
Sinceramente, non saprei
risponderti. La bicicletta di Bartali è una storia che ho scritto
quasi di getto ed è venuta fuori proprio così come la leggiamo oggi.
Il focus poi, paradossalmente,
più che su Bartali, è su questo personaggio di invenzione, un giovane
repubblichino tifoso sfegatato proprio di Bartali, che si trova costretto a
ispezionarne la bici dopo l’arresto (che invece è realissimo): si potrà toccare
la bicicletta di Bartali? Si potranno poggiare le mani dove le poggia lui
mentre sfreccia verso i traguardi di tappa al Giro d’Italia e al Tour de
France? E si potrebbero mica fare due pedalate sulla sua bicicletta…?
Il libro si costruisce
come una fiaba, è breve e contiene in appendice una testimonianza di Andrea
Bartali, figlio di Gino e unico depositario dei segreti del padre:
credo siano questi
gli elementi che hanno contribuito alla diffusione de La bicicletta di Bartali. Stante,
ovviamente, l’eccezionalità e la meraviglia della vicenda che si
racconta!
Per cui, ecco, non saprei davvero parlarti delle difficoltà legate alle specificità del pubblico di riferimento. Anche perché credo - e questo sì che posso affermarlo con sicurezza - che i bambini siano in grado di affrontare qualsiasi tematica, a patto che sia raccontata con un linguaggio a loro vicino. Forse la chiave di volta è lì, più che nei temi: nella lingua.
4) Nel
parlare di un periodo storico tanto drammatico, non hai rinunciato alla tua
tipica ironia. Come si fa a conciliare l'umorismo con la tragedia? O l'umorismo è fatto
apposta per permetterci di affrontare le tragedie?
Non solo sono toscano, sono pure viareggino: vivo nella città del Carnevale, anche volendo non saprei come esprimermi altrimenti! L’ironia è una parte fondamentale della mia vita; egoisticamente, mi piacerebbe che lo fosse anche per il resto del mondo. Credo che l’ironia non solo esorcizzi le difficoltà più o meno grandi che affrontiamo ogni giorno, ma abbia proprio un ruolo antropologico nel dare le giuste dimensioni alle nostre miserie quotidiane. Serve a prenderci meno sul serio. A ridefinire i contorni del nostro ego. Nel caso specifico de La bicicletta di Bartali, l’ironia è un elemento probabilmente genetico, ma vorrei anche sgomberare il campo da fraintendimenti: non sminuisce di un’unghia la tragedia della guerra, della Shoah o l’eroismo di Gino Bartali. Il solco su cui mi muovo è lo stesso de - e bada bene lo dico solo come riferimento, come stella polare, guai a pensare che mi paragoni, eh! - il solco, dicevo, è lo stesso de La vita è bella di Roberto Benigni, che non a caso è toscano pure lui. Qualcuno potrebbe dire che l’ironia e la comicità del film sminuiscano la tragedia che racconta? Assolutamente no.
5) La bicicletta di Bartali è una storia toscanissima. Quanta ispirazione artistica ti dà la tua regione d'origine?
Cerco che sempre di mettere la Toscana nelle mie storie. Anzi, cerco di metterci proprio Viareggio. Senza mai nominarla direttamente, infatti, la mia città è lo sfondo de L’Ibis di Palmira e il merlo ribelle e, in maniera più evidente seppur dissimulata, di Soffia, Libeccio!. Forse, è per dare credibilità alle storie. Forse, agganciare le storie a luoghi che conosco mi aiuta a raccontarle, a renderle più vere. O forse, più semplicemente, è solo che sono innamorato del posto dove vivo, che ha millemila difetti, ma è il posto migliore dove vivere.
6) "Questa
è una storia bella come una fiaba ma anche come la verità,
quando è bella e vera e coraggiosa." Come si fa a stabilire la verità
storica, in mezzo a tante fonti tendenziose? E come si fa a trovare il fiabesco
nella storia?
7)
Dell'impegno di Gino Bartali per salvare i destinati ai lager
non si seppe alcunché, finché lui era in vita.
Se non fosse stato un famoso campione
sportivo, probabilmente non
si sarebbe saputo alcunché nemmeno dopo. Quanto contano gli "eroi
invisibili" nella storia?
8) Un tuo libro poco conosciuto, La favola blu (2014, Marco Del Bucchia Editore), parla di Egisto Malfatti. Chi non si occupa del Carnevale di Viareggio e di cultura locale toscana, probabilmente, non l'ha mai sentito nominare. Ci parli un po' di lui e della sua eredità artistica?
Egisto Malfatti è un poeta chansonnier che ha riscosso meno fortuna di quanto meriti. Invito tutti ad ascoltare alcune delle sue canzoni su YouTube, da Miriordo in là, perché hanno quel gusto malinconico e leggero così intrinseco all’anima di Viareggio e del suo Carnevale, fatto di carta di giornale e colla di farina. Ne Le lezioni americane, Calvino descrive la leggerezza come un’operazione di sottrazione di peso: serve quella, la leggerezza, per fare il Carnevale, per fare l’ironia, la satira. E soprattutto per i mascheroni di cartapesta: se non fossero leggeri, cadrebbero al suolo! Leggerezza, dunque, è la parola chiave di tutto. Leggerezza, sì. Ecco, Egisto Malfatti è stato l’anima poetica del Carnevale di Viareggio e del teatro dialettale, la Canzonetta, dagli anni ‘50 fino ai ‘90. Pesca nella sua memoria, racconta la sua infanzia e la Viareggio dei primi del ‘900, ricostruita attraverso la lente della nostalgia. E poi, con la sua perizia tecnica, ha fatto un’iniezione di poesia nella leggerezza del Carnevale, ne ha nobilitato lo spirito boccaccesco. Insomma, per come lo vedo io (e lo sentiamo a Viareggio), Egisto Malfatti è un poeta con tutti i crismi. E, siccome a giorni il Carnevale di Viareggio festeggerà i primi 150 anni di vita, non vedo occasione migliore per ricordare lui e la sua poesia.
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