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Le storie zen come pratica spirituale


Su questo blog, il monastero zen italiano Sanbo-ji,il Tempio dei Tre Gioielli, è un ospite di vecchia data. Ho già partecipato a due ritiri, nonché al seminario sulla cucina Shōjin Ryōri. Insomma: se non avessi paura di rivangare una retorica trita e ritrita, direi che tornare lassù è come tornare a casa. Me l’hanno involontariamente dimostrato i due gatti randagi ormai “adottati” dai monaci: Mirin (così detto perché rossiccio come l’omonimo condimento) e la grigio-striata Lince. Li ho incontrati al mio arrivo, nel giardino dell’eremo, pronti per le coccole di benvenuto. 
monastero zen sanbo-ji berceto
            Ricordo il loro pelo setoso, caldo e palpitante, accanto alle altre sensazioni: l’incenso nella sala di meditazione (un poco più pungente di quello da chiesa); le verdure fresche e il pane integrale in tavola; la terra calda e ruvida dell’orto, dove ho raccolto erbacce durante il samu (= “lavoro consapevole”), scalzandomi per sentirla sotto la pelle dei piedi; il verdeggiare dei prati, delle siepi e del ciliegio, unito al grigio delle scale in pietra e al nero ondeggiare dei sassolini nel giardino giapponese; la voce profonda e vibrante della campana tibetana.
            Il seminario che ho seguito (dal 17 al 19 agosto 2018) s’intitolava Le storie zen come pratica. La famosa meditazione seduta in silenzio, infatti, non è l’unico modo per conseguire quella che questo ramo del Buddhismo considera l’ “illuminazione” o “realizzazione”: uno stato psicofisico che va oltre l’uso della “mente discriminante” (che elabora “la propria opinione”) e della personalità che ci siamo costruiti col tempo, per abbracciare in un attimo la realtà intera. Ciò avviene tramite momenti di stupore che aprono la mente, mostrando che i nostri stati emotivi congelati in “schemi” non rappresentano la “normalità” o la “verità”. Vedere questo significa passare da un impiego passivo della mente (“Sono fatto così, la penso così e non posso farci niente”) a uno attivo (consapevolezza dell’esistenza di schemi e della loro natura).
 In questo, secondo gli insegnamenti del maestro Tetsugen Serra, lo Zen si è rivelato rivoluzionario, superando la spiritualità basata sul riordino della mente. Andando oltre il proprio “ego”, ci si troverebbe già in una condizione di ordine. Pertanto, anziché dedicarsi a lunghi studi teorici, il praticante zen si dà allo shikantaza (= “puro essere”, ovvero la meditazione seduta in silenzio e a mente rilassata) e all’ascolto dei koan: le storie con contenuti etici, morali e di pratica, ispirate a episodi d’illuminazione realmente accaduti. Complessivamente, sarebbero circa 1700, raccolti fra Cina, Corea e Giappone. Il termine koan (ha illustrato Tetsugen) significa “registro pubblico”: si tratta dunque di una tradizione riconosciuta, alla quale ricorrere per necessità formative. Essi hanno una struttura ben definita, composta di:
1.      Un protagonista, descritto e connotato;
2.      Una trama;
3.      Una contestualizzazione temporale in una determinata epoca;
4.      Una collocazione geografica;
5.      Un motivo per cui avviene la storia;
6.      Dinamicità nel ritmo;
7.      Contenuti emozionali che la arricchiscono;
8.      Una durata relativamente lunga, affinché l’emozione nasca nell’ascoltatore, venga riconosciuta e serva come ancoraggio dell’attenzione;
9.      Fonti attendibili, per garantire la credibilità.

Durante il seminario a Sanbo-ji, sono stati letti e commentati esempi scelti di koan. Uno era quello dedicato al maestro giapponese Hakuin (1686-1769 ca.): “Ah, è così?” In un villaggio sui monti vicino a Kyoto, una bella ragazza si scoprì incinta. Alle pressanti richieste dei genitori di svelare il nome del responsabile, lei accusò Hakuin. L’attempata coppia andò dal maestro, gli raccontò la faccenda e lo coprì di improperi. Unica risposta di lui: «Ah, è così?» Quando il bambino nacque, Hakuin fu incaricato di occuparsene. Pur avendo perduto reputazione e discepoli, il maestro zen si dedicò silenziosamente al compito, chiedendo latte fresco ai vicini. Col passare del tempo, la ragazza madre non sopportò più la lontananza dal bimbo e confessò la bugia: il padre del piccolo non era Hakuin, ma un giovane garzone. I genitori di lei andarono dunque a presentar le proprie scuse e a chiedere la restituzione del nipotino. Unica reazione del maestro, nel separarsi dal bambino: «Ah, è così?» 
            Nell’apparente freddezza e incomprensibilità del protagonista, c’è la manifestazione del suo stato illuminato. Secondo il commento tenuto durante il seminario, Hakuin avrebbe capito in un attimo la sofferenza della ragazza messa alle strette, del bambino nato in un clima di rifiuto e dei vecchi genitori sconvolti dallo scandalo. Avrebbe dunque avuto la capacità di accettare il sacrificio della propria reputazione, per contribuire alla serenità di tutti.
            Le storie hanno fatto rivivere anche Bodhidharma (V-VI sec.), la cui leggenda è compresa in Racconti dei saggi zen (a cura di Pascal Fauliot, L’Ippocampo Edizioni). Il mistico indiano trasferitosi in Cina si distingueva dagli altri religiosi per il suo aspetto “patibolare”: statura imponente, barba, sopracciglia cespugliose, grandi occhi e anelli alle vaste orecchie. Il suo carisma e la sua franchezza avrebbero avuto ragione persino dell’imperatore. È considerato il fondatore dello Zen. Il carattere pratico di quest’ultimo ben si adattò alle abitudini laboriose dei Cinesi.
monastero zen sanbo-ji berceto            Dai Racconti dei saggi giardinieri (a cura di Pascal Fauliot e Patrick Fischmann, L’Ippocampo Edizioni) era tratto, invece, un aneddoto cinese, a proposito di un monaco saccente e chiacchierone. Il suo maestro lo mise in crisi con questa domanda: «Qual era il tuo volto originario, prima di nascere?» Un quesito tanto irrisolvibile da spingere il “pozzo di scienza” ad abbandonare il monastero, per andare a vivere sulla tomba di un grande maestro, abbandonata e divorata dall’edera. Intorno ad essa, creò un giardino, dedicandosi così al samu. Raggiunse una tale concentrazione in quell’umile compito da ottenere l’illuminazione, grazie al tonfo di un sasso contro un bambù cavo. Conclusione: “Ho gettato la cosa miserabile che chiamano ‘io’ e sono diventato il vasto universo.”
            La Raccolta della Trasmissione della Lampada del maestro giapponese Keizan Jokin (1267-1325) presenta una figura poco conosciuta, ma fondamentale: Ānanda, discepolo e cugino del Buddha, nonché “registratore” dei suoi insegnamenti. Oltre a questo rapporto privilegiato, godeva di una ricca erudizione; eppure, faticò molto nel conseguire l’illuminazione… proprio a causa del sotterraneo orgoglio per questi doni. Deposto il suddetto orgoglio, nessun altro ostacolo si presentò.
            I koan, così come altri strumenti di cui si avvale la pratica zen, sono piccole pressioni successive. Tanti momenti in cui è possibile frenare le “reazioni spontanee”, per rispondere: «Ah, è così?»

Commenti

  1. Dev'essere stata un'esperienza coinvolgente. Come hai fatto a conoscere quel luogo e quelle persone? Mi ha sempre affascinato il mondo che ruota intorno a queste comunità, ma non ho mai avuto modo di accostarmici. Sarebbe bello poter sconfiggere ogni fonte di stress con un "Ah, è così?". Un saluto

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    Risposte
    1. Ho conosciuto l'esistenza del Buddhismo zen italiano per caso, facendo amicizia con un ragazzo che stava per diventare monaco proprio nella comunità che descrivo qui. :) Se desideri frequentare il Cerchio a Milano o Sanbo-ji a Berceto, basta consultare il sito www.monasterozen.it e troverai il calendario degli eventi. :) Anche in altre città vengono organizzati incontri di meditazione... Grazie per l'interessamento! :D

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