Il
pronto-bus si ferma vicino a un piccolo oratorio. Da lì, si diparte una
stradicciola, che si snoda verso il fondo della valle. Intorno, ondulati
paesaggi appenninici, col verde dei boschi, il giallo dei campi e delle balle
di fieno, l’azzurro del cielo d’agosto.
Mi trovo a Berceto, in provincia di
Parma; frazione Pagazzano, località Prataiolo. Fra quei paesaggi nostrani, si
trova un angolo di Giappone: il monastero zen Sanbo-ji, ovvero il “Tempio dei
Tre Gioielli”, indicato su frecce in legno quasi anacronistiche.
Fu
fondato dal maestro Tetsugen (al secolo, Carlo Serra), nel 1995, dopo Enso-ji
“Il Cerchio” (monastero zen di Milano, 1988) e una scuola di Shiatsu (1990). Il
sito è quello di una vecchia cascina; ma il giardino e la sala di meditazione
sono stati costruiti in stile giapponese. Accanto alla foresteria, fa capolino
il cantiere di una nuova sala. Tutt’intorno, salgono i boschi. Una piattaforma
in cemento (per gli esercizi di respirazione all’aperto) guarda verso il punto
in cui sorge l’alba fra i monti. Accanto alla cucina, un orto recintato mostra
melanzane e altri ortaggi. Ciliegi e peri ombreggiano sedie e panchine. Questo
luogo accoglierà monaci e visitatori per il “Ritiro zen di metà agosto”: due
giorni di condivisione della vita monastica.
Il
maestro Tetsugen nacque a Milano nel 1953. La sua ricerca spirituale lo portò
in Giappone, nel monastero Tosho-ji. Tornato in Italia, volle proporre un percorso
simile al proprio agli occidentali, ma mantenendo la tradizione giapponese
anche nella vita quotidiana: architettura, vestiario, alimentazione. Evitò,
insomma, quell’ “internazionalità” tipica della globalizzazione che cancella le
differenze culturali e toglie la possibilità di mettere in discussione le
proprie abitudini – secondo le parole di Tetsugen stesso.
Come lui, i monaci e i Bodhisattva
(corrispondenti, all’incirca, ai “terziari” cristiani) sono italiani, ma con un
nome giapponese ricevuto all’atto della loro adesione allo Zen.
Gli ospiti vengono condotti in
quella che era la casa dei contadini, un tempo – tracce della legnaia e della
stalla sono rimaste al pianterreno. Uomini e donne, naturalmente, hanno alloggi
separati. Le camere collettive con letti a castello e i bagni in condivisione
resuscitano ricordi di colonie per bambini e campi-scuola giovanili. Qua e là,
negli interni della foresteria, fanno capolino riproduzioni in miniatura di
stampe giapponesi.
Per quanto riguarda l’appartenenza
religiosa degli ospiti, un novizio di Sanbo-ji mi ha preannunciato una certa
varietà (compresi “neopagani” animisti e lettrici di tarocchi). Le prime due
compagne di stanza a cui mi rivolgo non sono buddhiste e hanno una formazione
cattolica, anche se non sembrano particolarmente ferventi. Un’altra porta una
croce al collo. Mentre sono poco distante, le sento parlare di una signora
musulmana che ha visitato il monastero tempo addietro.
Il giorno dopo, la pagina è
completamente voltata. La colazione si svolge in silenzio, fra the verde, pane
integrale e biscotti vegetali confezionati dai monaci. Il pranzo è fortemente
ritualizzato – dal modo di riporre le ciotole ai gesti per segnalare le dosi di
cibo desiderate. I movimenti cadenzati e il raccoglimento uniscono i commensali
in un tutt’uno armonico. Prima di cominciare i pasti, nessuno manca di porre un
poco di pane o riso in scodelle apposite, come “offerta a tutti gli esseri”.
Concretamente, quella parte di cibo sarà destinata agli uccelli e agli altri
animali che frequentano il giardino. Dai boschi, scendono spesso anche due
gatti lustri e pasciuti: una grigia striata e un rossiccio, vagabondi, ma – di
fatto – parte del microcosmo di Sanbo-ji. Non mancano mai di venirsi a prendere
un poco di cibo e coccole alle ore dei pasti. Anche noi ospiti li osserviamo,
deliziati, e li riempiamo di mille vezzeggi.
La sveglia è prima dell’alba ed è
segnalata dal campanello di un monaco. Tutti si preparano alla svelta e si
recano, scalzi, sulla piattaforma di cemento per gli esercizi di respirazione.
Il controllo del corpo conferito da questa pratica dovrebbe renderci agili e
potenti “come il leone di montagna”. Per quanto riguarda la sottoscritta, il
risultato è ancora tutto da vedersi. Infine, seduti in meditazione sul cemento,
assistiamo al sorgere del sole fra le montagne. Quel parto insanguina le nubi.
Le ore dei pasti sono scandite dal taku, uno strumento composto da due
sbarre di legno che cozzano l’una contro l’altra. Le campane tibetane chiamano
al raccoglimento in refettorio o alla meditazione nella sala. Più vasta di
quella milanese che ho già descritto (Uqbar
Love n. 122, 11 febbraio 2015, pp. 6-7), è sempre attrezzata con file
ordinate di stuoie e zafu, cuscini da
meditazione. In essa, ci si muove secondo tracciati ortogonali e nel gesto del gassho (il saluto a mani giunte). Gli
occhi di chi entra fissano quelli del Buddha centrale, in fondo alla sala. Un
sedile apposito segnala la posizione del maestro. In questo luogo, la pratica
raggiunge il culmine della concentrazione, con la meditazione seduta (zazen) alternata a quella camminata (kinhin). La postura corretta e dignitosa
è fondamentale. Tuttavia, il dolore alle gambe dei principianti li costringe a
distenderle, ogni tanto. Il profumo terso e intenso dell’incenso giapponese
imbeve l’aria.
Sempre in questa sala, ci si
raccoglie regolarmente per ascoltare gli insegnamenti del maestro, annotati sui
personali “diari di bordo”. Si tratta di letture di racconti sapienziali di
origine cinese, con relativi commenti.
La tensione della pratica è spezzata
da offerte di the e tisane, nel refettorio.
Durante
il ritiro, vige il silenzio, anche nei dormitori e nel giardino. La mia testa è
piena di vuoto, come d’acqua limpida. Strano a dirsi, non sento il bisogno di
riempire le pause leggendo. Gli alberi, il cielo e i vialetti del giardino
bastano alla mia attenzione. Sebbene quasi nessuno si rivolga la parola, non ci
si sente mai isolati o ignorati. Si tocca così con mano cosa significhino le
espressioni essere un tutt’uno e vivere nel “qui” e “ora”.
Un’altra parola d’ordine è
“consapevole”. “Lavoro consapevole”, “pranzo consapevole”: ogni aspetto della
vita, anche il più minuto, è posto sotto il segno dell’essere attenti e presenti
interamente a ciò che si sta facendo. Questo è il segreto di quella “pienezza
di vuoto” che si è creata anche nella mia testa.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 147 (28 agosto 2015), pp. 21-22.
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