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Visualizzazione dei post da ottobre, 2021

“Non rompermi…” di Antonio Ferrante

 Una novità questa miscela dalla quale il lettore vede spuntare versi, musica parlata e recita classica.  Ci si lascia inondare da un genere musicale fresco dati i tempi ma indiscusso grazie a Ferrante che ne preserva il lato prettamente armonico, sorprendendo di continuo mediante una strutturazione   più che collaudata, sapendo poetare per figure malinconiche e persino ironiche. Testo distante dal solito verseggiare che c’impongono educando al bello apparentemente, Antonio abilita la parola montata all’antica sconvolgendone il didentro, cosicché s’illumina ogni tipo d’imprevisto. La raccolta risulta sincera perché si evita di dare retta a qualsiasi convenevole logica, suggestionando attraverso l’ilarità, immarcescibile frutto di un passato che non muore. Il poeta comunica qualcosa lasciando che si scontrino l’evidenza e il significato complesso che l’umanità detiene, desiderando egli resistere da spettatore, in modo tale da innescare il profondo che non traspare dai fatti. ·  

Manerbio nel Rinascimento: tra il Leone e la Biscia

Abbiamo già parlato del Castello (anzi, dei castelli) di Manerbio e degli assedi ivi sostenuti. Il passaggio dal XIV al XV secolo non vide diminuire le guerre, nella nostra città. Anche di questo parla l’opera di Mons. Paolo Guerrini: Manerbio: la Pieve e il Comune (Brescia 1936, Scuola Tipografica Opera Pavoniana).  Le lotte fra Milano e Verona furono sostituite da quelle fra Milano e Venezia . La Serenissima, infatti, aveva esteso i suoi possedimenti di terraferma; nel 1426-1427, conquistò anche i territori di Brescia, Bergamo e Crema. Il 10 giugno 1440, il Castello di Manerbio , tenuto dai veneziani, fu assediato ed espugnato da Francesco Sforza, duca di Milano; fu ripreso dall’esercito veneto nel 1446 e perduto nuovamente poco dopo, mentre le campagne vivevano nell’incubo delle scorrerie militari.             A Manerbio, pose il proprio quartier generale a Manerbio il condottiero Iacopo Piccinino (1423-1465) . All’epoca, la nostra città era considerata una sorta di roccafor

La squallida carnevalata della "normalità"

Non c'è gente più vuota, inaffidabile ed istrionica di chi ha il culto della normalità. Non c'è un solo dettaglio della sua vita che non sia studiato in funzione dello sguardo altrui, sulla base di stilemi dettati (più o meno subliminalmente) dall'ambiente circostante.  Si tratta di una curiosa mascherata alla rovescia, basata sul nascondere e l'appiattire il più possibile. Cosicché non c'è neppure un aspetto goliardico, brillante o gioioso in essa. È tutto un rincorrere il grigio a ogni costo. Guai se i vicini avessero qualcosa di sfizioso da vedere in te. Guai se ti trovassero insolito, originale o anche solo distinto. Perché sei una "persona normale", tu. Non deve essere possibile farti altri complimenti se non quelli sul quanto sei "regolare", "a posto", "tranquillo"... inesistente.  Un fantasma. Un essere già morto. E, come tutti i fantasmi, la "persona normale" detesta i vivi per invidia. In cuor suo, vorrebbe

Per amor dell'arte: il lato oscuro della Grande Bellezza

In questi giorni, sono state tenute discussioni e polemiche sull'arte, in nome d'una sola statua (sì, lei...  che ve lo dico a fare?) . A prescindere dal fatto che essa meriti o no tanta attenzione, alcuni risvolti vanno ben al di là dell'attualità immediata.  J. E. Millais, Ophelia, 1851-2 Le diatribe sull'arte, sul rapporto fra estetica e contenuti sono antiche quanto l'arte medesima. Già Platone , nello Ione e nella Repubblica, trattò del rapporto fra l'educazione dei cittadini e arti come la poesia e la musica. Se, da una parte, censurò tutto quanto portava a un'eccitazione emotiva incontrollata e fine a se stessa, dall'altra dovette riconoscere il ruolo irrinunciabile del bello, nella pòlis ideale. Del resto (ponderò lo stesso Platone), come spingere i cittadini alla virtù, se non imfiammandoli col desiderio della sua bellezza? L'Eros , in fin dei conti, è motore di tutte le cose. Lo è a tal punto che non ha bisogno nemmeno di fini o giustificaz

Mario Praz e il patto col serpente

Tre anni fa, ho scritto un post riguardante La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica , di Mario Praz (Roma, 1896 - 1982). Figuriamoci se avrei potuto farmi sfuggire il suo seguito: Il patto col serpente (Milano 2013, Adelphi).              L’introduzione è del dicembre 1971 e spiega il significato del titolo: si riferisce al dipinto Eva, il Serpente e la Morte (1510-1530), di Hans Baldung Grien. Un’Eva sorniona e soddisfatta nasconde il famoso frutto dietro la schiena, mentre la sua mano si allaccia in un nodo con la coda del Serpente e le dita putrefatte della Morte. Insomma, è chiaro che si tratta di un patto. Ed è altrettanto chiaro che a guadagnarci è lei, l’autrice della grande trasgressione.             Il “patto col serpente” è la scelta degli artisti di esplorare “il lato oscuro” : la malinconia, la fantasticheria perversa e mostruosa, la nevrosi, la follia. Sono lande tremende dell’animo umano, ma - tutto sommato - le “Eve” che scelgono di uscire dai con