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“In nome della madre” con GardArt ed Erri De Luca


“In nome della madre” (Milano 2006, Feltrinelli) è un breve e famoso romanzo di Erri De Luca. Esso racconta l’Annunciazione e la Natività dal punto di vista di Maria (anzi, Miriàm).
            L’associazione culturale GardArt di Desenzano del Garda ne ha tratto uno spettacolo teatrale. Protagonisti: Laura Gambarin, nei panni di Miriàm/Maria e Gianluigi La Torre, in quelli di Iosef/Giuseppe. A Manerbio, il loro spettacolo è arrivato il 13 aprile 2018, per interessamento di Egidio Zoni, con l’importante collaborazione del parroco don Tino Clementi e delle Suore della Beata Vergine Maria. Il “teatro” era la Chiesa della Fraternità Paolo VI: per nulla inadeguata, data la tematica della rappresentazione. La qualità della recitazione è stata ottima. La Torre ha eseguito anche le musiche; degli altri aspetti tecnici, si è occupato Simone Meneghelli. 
in nome della madre erri de luca
Gianluigi La Torre (Iosef) e Laura Gambarin (Miriàm),
GardArt
            Il racconto inizia con la miracolosa gravidanza di Miriàm, per opera del vento e delle parole dell’annuncio. Il prologo tratta l’evento come se fosse assolutamente naturale: fa appello a ciò che avviene ai fiori. E “Fiore è il nome del sesso delle vergini,/chi lo coglie, deflora.” (“In nome della madre”, p. 11). Ma la notizia, nel mondo umano, suona comunque incredibile. Miriàm non riesce a tenerla per sé neppure un minuto: vuol dirla subito a Iosef, descritto come giovane e innamorato. Proprio perché innamorato, le crede immediatamente. Ma come dirlo al resto della comunità? Come spiegarlo alla Legge? Mentre Iosèf cerca espedienti e bugie con cui la fidanzata potrebbe discolparsi, lei pensa solo alla gioia immensa che prova, alla forza e alla libertà che da essa scaturiscono. Comincia così una lotta contro tabù, pregiudizi e normative, che pesa sulle spalle di Iosef non meno che su quelle di Miriàm. Perché, per la “vox populi”, lui “non è un uomo” e lei è “un’adultera”: degni di disprezzo, in quanto “trasgressori” dei propri ruoli. Il loro paesello è Nazaret, come vogliono i Vangeli; ma la descrizione che ne fa De Luca sarebbe calzante per qualunque villaggio bigotto, in ogni tempo e luogo. Gli uomini, nel racconto/spettacolo, sono i detentori della Legge: coloro che studiano la storia e danno importanza alle parole proprio per il loro potere di creare un “filo rosso” tra gli eventi. E le donne? De Luca è impietoso, nel descrivere la tipica “solidarietà femminile”: “«La svergognata gliel’ha data a bere, ma con noi non la spunta.» «Guardate che aria da santarella.» «Voglio proprio vedere a chi somiglia il bastardo che porta nella pancia.» «Che frottola ha detto? Quella del Salvatore, figlio dell’angelo? Sai che risate se nasce femmina.» (Op. cit., p. 29) Dopo Iosef, ad appoggiare Miriàm è solo la madre di quest’ultima. È lei a farle balenare una forma di solidarietà fra donne: “«Miriàm, gli uomini sono buoni a fare qualche mestiere e a chiacchierare, ma sono persi davanti alla nascita e alla morte. Sono cose che non capiscono. Ci vogliono le donne al momento della schiusa e all’ora di chiusura.»” (Op. cit., p. 42). Ma il fatto stesso che “In nome della madre” sia stato scritto da un uomo rende legittimo dubitare di questa categorica affermazione.
            Il racconto, divenuto spettacolo, mostra la forza delle parole, che “annodano il singolo giorno al tappeto del tempo” (op. cit., p. 50) e possono persino portare nuova vita. Ma celebra anche un potere più grande: quello dell’amore, che fa comprendere le eccezioni alla legge e alla storia. Che può trasformare una coppia qualunque nella “benedetta fra le donne” e nel “più giusto degli uomini in terra”.

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