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Purché sia altrove


Pavia, 14 febbraio 2013

 
Caro “Attico”,
ti scrivo in una notte d’insonnia e di pensieri. La mia sveglia segna le 02:35 e io ho bevuto, poco fa, due tazze di tisana. Ma il Sonno non è stato adescato lo stesso.
            Sei presente solo tu: o, meglio, sono presenti i discorsi che abbiamo fatto e rifatto, nei nostri ultimi incontri. Gli ultimi prima della tua partenza: non gli ultimi in assoluto, voglio sperare.
            Abbiamo superato gli esami di maturità nello stesso anno. Era il 2008; è avvenuta, allora, quella gaffe del Ministero della Pubblica Istruzione che ci ha fatto ridere fra le lacrime. La traccia A della prima prova prevedeva, come sempre, l’analisi guidata di un testo letterario. Era una lirica di Eugenio Montale; le domande-guida vertevano sulla rappresentazione montaliana della figura femminile. Se non che –è stato scoperto poi- quei versi erano dedicati a un uomo. Tu hai rivolto parole saettanti a un professore, dicendo che “non valeva la pena di rimanere in un Paese simile”. Già allora covavi questo germe… Il tuo mentore occasionale, tuttavia, ti ha risposto che c’erano buone occasioni e bravi professori anche in Italia, purché tu avessi la volontà di cercarli. L’hai ascoltato. Hai vinto una borsa di studio in un istituto d’eccellenza, ti sei laureato a pieni voti. Aveva ragione il “vecchio saggio”, insomma. Ma quel benedetto “estero”, qualunque fosse, ti era rimasto in gola. Avevo l’impressione che, per te, fosse importante far le valige, più che trovar davvero qualcosa. Io, invece, ho pensato soprattutto a completare il mio percorso a Pavia, dove avevo trovato la necessaria borsa di studio. Ora, sono alla vigilia del diploma IUSS e della laurea magistrale, con buone prospettive di conseguire qui anche il dottorato, nonché (se tutto andrà bene) di metter su famiglia. Mi rendo conto di essere in controtendenza rispetto alla retorica del "Figlio, lascia questo Paese". Un paternalismo di cui non avevamo davvero bisogno. Anzi, a proposito di figli… Non tutti vengono da una famiglia numerosa come la tua. Qualcuno è l’unico “bastone” dei genitori. Se emigrasse, cosa farebbe, quando avessero bisogno di lui/lei? Si porterebbe all’estero due anziani, magari neppure in grado di parlar la lingua locale?
            Per farla breve: io sono a Pavia, dedita a completar gli studi; tu sei in un altro Paese. Per un periodo limitato, al momento. Il dottorato sarebbe un altro paio di maniche. Tutta la vita ancor più. Senza contare (perdonami!) che le tue basi sono spesso fatte più d’entusiasmo che d’altro. Fra tanti castelli in aria, ti capita di costruire una monofamiliare sulla terra, di quando in quando.
            Quando ti spiegavo che, per me, non era tempo né caso di “saltare nel vuoto”, mi dicevi: “E se fosse troppo tardi?” Avevi uno sguardo smarrito, come chi parlasse con le proprie ansie, più che con persone di carne. Ti ho risposto che il “presto” e il “tardi” vengono definiti in base alle proprie energie ed esigenze. Non hai potuto che darmi ragione.
            Mi hai fatto pensare a due professoresse del liceo, che si erano messe in testa di mandarmi alla Scuola Normale di Pisa. Molte buone intenzioni e un pizzico di rimpianto per le occasioni che loro non avevano più. Io ho apprezzato il loro sincero affetto, ma ho preferito lo IUSS di Pavia e i suoi collegi, che mi davano più possibilità di trovare vitto e alloggio alla mia portata. Ancora oggi, non biasimo quella scelta al bivio.
            Per i giovani appassionati come noi, il nostro stesso cuore è una trappola. Siamo alla mercé delle “belle speranze” che ognuno si crede in diritto di venderci. Giornalisti, economisti, finanziatori, datori di lavoro, amici, faccendieri, istruttori… Tutti credono di poter pontificare su chi sia il miglior offerente a cui cedere la nostra vita. Senza neppur domandarsi se, così facendo, stiano davvero agendo per il nostro meglio. C’è in questo, spesso, una sorta di “bovarismo” che fa disprezzare ciò che è vicino a noi, per idealizzare l’ “altrove”. Cosicché, l’ “estero” non è più un Paese determinato, con certi usi, costumi e leggi (spesso, assai poco concilianti, in fatto di immigrazione e previdenza sociale). È un contenitore aereo in cui scaraventare le nostre aspirazioni frustrate, i nostri sogni, tutto ciò che non abbiamo, potremmo avere o immaginiamo si possa avere. Con beneficio del marpione di turno, che sventola un osso/contratto sotto il naso di noi “cani affamati”. Come Madame Bovary, diciamo: siamo da compiangere, ma non siamo in vendita. Anzi, non siamo neppure da compiangere, tante volte. Lo saremmo, più che altro, in base a quel “complesso del provinciale” endemico negli italiani. “Sono stufo/a dell’Italia!” “Perché?” “Mah… vorrei fare nuove esperienze… Altrove, c’è un metodo didattico che mi piace di più… Farebbe curriculum…” Questo è un siparietto cui assisto spesso.
            La prova più dura, per la nostra generazione, è resistere alla retorica dell’ “occasione”, del “non-fare-lo-schizzinoso-hai-tutte-le-porte-aperte”. Ancor più, all’abitudine di credere che il paradiso sia sempre… altrove.

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