Può una tragedia musicale del Seicento strapparci ancora sorrisi e lacrime? E il tema mitologico non sarà un po' troppo imbalsamato?
La risposta a entrambe le domande è scontata, ma non troppo. Si sa già che le avventure di Ulisse sono riproponibili in molte salse, coma ha dimostrato anche il recente film di Uberto Pasolini.
Più difficile è rispondere al quesito sulla tragedia musicale. Il ritorno di Ulisse in patria (1640) di Claudio Monteverdi è un gioiello di epoca barocca. Lo separano da noi ben 385 anni.
La risposta a entrambe le domande è scontata, ma non troppo. Si sa già che le avventure di Ulisse sono riproponibili in molte salse, coma ha dimostrato anche il recente film di Uberto Pasolini.
Più difficile è rispondere al quesito sulla tragedia musicale. Il ritorno di Ulisse in patria (1640) di Claudio Monteverdi è un gioiello di epoca barocca. Lo separano da noi ben 385 anni.
La maturità di Monteverdi e le origini del "Ritorno di Ulisse in patria"
Monteverdi componeva per le chiese e per la nobiltà. Eppure, nel 1640, si affaccia a un mondo diverso. Ha settantatré anni e un'esperienza artistica decisamente matura. Si trova a Venezia, una delle città più ricche e dinamiche dell'epoca. Stavolta, la commissione viene dal Teatro Santi Giovanni e Paolo: uno di quelli che hanno iniziato le attività in quegli anni. Stiamo parlando di "musicisti impresari", che allestiscono spettacoli per il guadagno. Niente a che vedere con le esigenze del culto o l'intrattenimento dell'aristocrazia. Eppure, proprio da questo "nuovo mondo" arriva a Monteverdi la proposta di comporre opere. Riuscirà a incontrare i gusti di un pubblico più vasto? A quanto pare, sì. A Venezia, il Cremonese compone tre opere in tre anni: Il ritorno di Ulisse in patria (1640), Le nozze d'Enea con Lavinia (1641) e L'incoronazione di Poppea (1643). Com'è chiaro dai titoli, il repertorio è sempre tratto dalle lettere classiche; ma, stavolta, è teatro "di massa". Le tematiche greche e romane escono dall'ambito delle corti e incontrano un nuovo successo. Probabilmente, questo è dovuto al fatto che Monteverdi ha musicato soggetti che celebrano Venezia. Ulisse ed Enea sono i prototipi del navigante coraggioso, come ce n'erano nella repubblica marinara. Poppea è l'eroina di un amore libertino che corona il suo sogno e compie una prodigiosa ascesa sociale: un emblema della sensuale e ambiziosa società veneziana. In tutti i casi, questi melodrammi sono per un pubblico che ama l'avventura, l'intrigo e la passione. Monteverdi ha vinto la sfida del teatro moderno.
"Il ritorno di Ulisse in patria" secondo Davide Livermore
Il ritorno di Ulisse in patria è andato in scena al Teatro Ponchielli di Cremona durante il Monteverdi Festival 2025, le sere del 13 e del 14 giugno. La direzione era affidata a Michele Pasotti. L'orchestra era La Fonte Musica. Le scene erano state curate da Eleonora Peronetti e D-WOK. I costumi erano di Anna Verde, assistita da Francesca Sartorio. Antonio Castro era il light designer. Soprattutto, assistito da Chiara Osella, il regista era Davide Livermore. L'abbiamo già menzionato come interlocutore di Alberto Mattioli durante la presentazione de Il loggionista impenitente. I due concordano sulla necessità di un teatro d'opera vivo, fedele alla sostanza del libretto, non a formalismi anacronistici.
E come ha fatto Davide Livermore a leggere il libretto di Giacomo Badoaro per il pubblico di oggi?
Si è rivolto al grande cinema neorealista, a Mediterraneo di Gabriele Salvatores, alle memorie della Seconda Guerra Mondiale. Questi riferimenti sono stati incisivi nel rappresentare il dramma di un reduce, un eroe molto umano che torna dal più grande conflitto di cui si conservi il ricordo. Nel prologo, proprio la personificazione dell'humana Fragilità (Chiara Osella, mezzosoprano) recitava il ruolo della dolente impazzita, fino a denudarsi: una vedova di guerra? Una madre privata del figlio? Di certo, un'immagine concreta e straziante di dolore umano, come la leggendaria Anna Magnani che rincorre la camionetta tedesca in Roma città aperta. Su di lei, si accanivano il Tempo (Luigi De Donato, basso), la Fortuna (Cristina Fanelli, mezzosoprano) e l'Amore (Giulia Bolcato, mezzosoprano). Un'introduzione calzante per la storia di uno degli eroi più imperfetti e complessi della letteratura classica (e, forse per questo, sempre attuale).
Penelope (Margherita Sala, contralto) era una sobria e matronale vedova greca, completamente nerovestita. Telemaco (Jacob Lawrence, tenore) era un ragazzo franco e curioso, un appassionato viaggiatore. Minerva (Arianna Vendittelli, soprano) era in versione bionda e stranamente civettuola: ma questo sottolineava il suo feeling privilegiato con Telemaco e Ulisse (Mauro Borgioni, tenore). Già, Ulisse... Lui aveva proprio l'aspetto da reduce del secondo dopoguerra. Quando è stato lasciato sulla spiaggia di Itaca, a farlo cadere privo di sensi è stato un colpo dato col calcio del fucile da quello che appariva un soldato nazista. Itaca, nel maxischermo delle videoscenografie, era un'isola greca
sospesa nel limbo, una crasi geografica di memorie mediterranee. [...] sospesa nel dopoguerra [...] una realtà livida e polverosa [...] con il respiro di una leggenda senza tempo e la forza del mito. (Davide Livermore)
Le scritte sui muri mostravano i sentimenti contrastanti degli Itacesi verso il re adorato, ma dato per morto. C'era perfino un poster pubblicitario di una marca di dadi da brodo, in luogo di più classicheggianti immagini divine. Del resto, in questa Itaca archetipica,
gli dèi non scendono dell'Olimpo, ma si annidano nelle pieghe della quotidianità (Davide Livermore).
Nettuno (Luigi De Donato, basso) indossava un'uniforme da alto ufficiale di Marina; Giove (Valentino Buzza, tenore) portava la fascia distintiva delle grandi autorità. Si disputavano a carte il destino dei Feaci, divenuti emblema delle vittime civili in ogni guerra. La semplicità di quel tavolino da gioco rendeva con immediatezza il cinismo con cui "i grandi" scambiano e perdono vite umane.
L'idillio fra l'ancella Melanto (Alena Dantcheva, mezzosoprano) ed Eurimaco (Alberto Allegrezza, tenore) era vivo e carnale come il libretto lo descrive, quotidiano e cinematografico allo stesso tempo nella sua irriverenza. L'anziana Ericlea (Chiara Brunello, mezzosoprano), che passava alle spalle dei due con la sua scopa, aggiungeva alla scena di passione un tocco di familiarità (insomma, queste "nonne" che non ci lasciano mai un po' di privacy!).
I Proci avevano l'aspetto di ricchi gangster. Tra loro, si muoveva il parassita Iro (tenore), vivacemente interpretato dallo stesso Livermore. Personaggio caricaturale, tutto ventre, persino odioso: eppure, nel finale, strappa qualche lacrima di pietà.
Sempre, sul maxischermo, giganteggiava il mare protagonista: simbolo delle forze che si accaniscono contro la natura umana, ma anche del coraggio di chi affronta il proprio viaggio.
Il ritorno di Ulisse in patria al Monteverdi Festival 2025 ha tratto da Omero e da Monteverdi quella che è la loro forza in ogni epoca: l'espressione delle passioni umane ferite dalla guerra e dai giochi di potere. La scritta finale Fiat Pax ("Sia la pace!") non suonava quindi né retorica, né fuori luogo. Nella grazia di Monteverdi, echeggia sempre un grido.
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