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La perdita d'aureola e l'arte onesta

Noi non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana e la razza umana è piena di passioni. 

Una splendida modella di Tiziano, forse una cortigiana
 Queste sono alcune fra le memorabili parole del professor Keating nel celebre film L'attimo fuggente. Mi sono tornate in mente in questi giorni, dopo aver sentito i discorsi di rimpianto di un attore che non trova più alcun senso di "nobile missione" nella sua professione. Nel suo campo, personaggi di dubbio valore possono venire strapagati; la formazione passa spesso in secondo piano rispetto alla popolarità e all'avvenenza fisica.

A pensarci bene, però, la questione della "decadenza delle arti" non è poi così recente.

Ricordate una breve prosa di Charles Baudelaire, Perdita d'aureola? È uscito nel 1869.

 

- Oh! Come! Voi qui, caro? Voi in questo luogo malfamato? Voi, il bevitore di quintessenze! Voi, il mangiatore d'ambrosia! Davvero, ne sono sorpreso!

- Mio caro, vi è noto il mio terrore dei cavalli e delle carrozze. Poc'anzi, mentre attraversavo il boulevard in gran fretta, e saltellavo nella mota, in mezzo a questo mobile caos, dove la morte arriva al galoppo da tutte le parti ad un tempo, la mia aureola, ad un movimento brusco che ho fatto, m'è scivolata giù dalla testa nel fango del selciato. Non ho avuto il coraggio di raccoglierla. Ho giudicato meno sgradevole il perdere la mia insegna che non farmi fracassare le ossa. E poi, ho pensato, non tutto il male vien per nuocere. Ora posso andare a zonzo in incognito, commettere delle bassezze e abbandonarmi alla crapula come i semplici mortali. Ed eccomi qui, assolutamente simile a voi, come vedete!

- Dovreste almeno fare affiggere che avete smarrita codesta aureola, o farla reclamare dal commissario.

- No davvero! Qui sto bene. Voi solo mi avete ravvisato.

D'altronde, la grandezza m'annoia. E poi penso con gioia che qualche poetastro la raccatterà e se la metterà in testa impudentemente.

Render felice qualcuno, che piacere! E soprattutto render felice uno che mi farà ridere! Pensate a X, o a Z!... Eh? che cosa buffa, sarà!...

 

La cosa apparentemente strana è che il nostro artista è felice. Felicissimo di non dover più indossare quella toga onorevole, ma soprattutto opprimente, che a lungo andare finisce proprio per uccidere l'arte. Questa vive di movimento, esplorazione, coraggio. Richiede di attingere alle verità schiaccianti o inconfessabili, senza le quali le forme tanto ammirate sono praticamente vuote. Ma, soprattutto, consiste nella gioia di condividere ciò che ci rende felici.

Non c'è niente di più odiosamente vuoto e narcisistico dell'artista che vuole esprimere qualcosa di "superiore". Superiore a cosa, di grazia? Ogni forma d'arte si esercita sulla terra, è radicata qui, non ha senso al di fuori del consesso dei comuni mortali.

Ah, giusto: c'è la questione del denaro. L'artista deve potersi mantenere, come chiunque. Ergo, deve scegliere tra sottrarre molto tempo alla propria vocazione o trovare qualcuno che paghi bene e costantemente le sue opere. 


Ogni epoca ha visto soluzioni diverse. Mecenatismo, arte di corte, committenze pubbliche, committenze private, nomadismo di piazza in piazza, espedienti e (oggi) produzione di massa finanziata dal grande capitale. Ma, in ognuna, non sfugge quel dettaglio che Baudelaire e i poeti suoi contemporanei vedevano bene: la parentela fra l'arte e il meretricio. Non si tratta solo delle cortigiane amate dagli scrittori o delle prostitute che hanno posato per i pittori. Si tratta di una parentela molto più sostanziale: la consapevolezza di dover vendere bellezza e piacere. Sono due cose che non hanno prezzo; ma, proprio per questo... su cosa si fonda il loro valore? È sovente assai soggettivo, o sottoposto agli accidenti della storia umana. Più si cerca di fissarlo in canoni, più l'animo umano (sotto sotto) lo nega e lo ricalcola. Aveva ragione Shakespeare: noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni... Ecco perché è maledettamente difficile "pagare secondo il merito", in campo artistico. Perché il metro del merito è la risposta del pubblico e quella non è realmente in nostro potere.

Non è che andasse poi tanto diversamente nei tempi antichi. La credenza nelle divine Muse che ispiravano gli aedi, anche se genuina, funzionava come una strategia di marketing ante litteram che permetteva ai suddetti aedi di avere sempre qualcuno che garantisse il loro mantenimento. L'arte commerciale, da questo punto di vista, è solo più onesta: ti dice chiaro e tondo che si sta vendendo e che non ha alcuna aureola. Proprio come le meretrici, gli artisti possono darsi per un tozzo di pane al primo che passa o avere un unico, potente protettore. Il loro grado di sacralità, alla fin fine, dipende dal nome di chi li paga. E coloro che si danno arie di superiorità artistica, in fondo, somigliano terribilmente a quelle ragazze di vita che si sistemano sposando qualche rispettabile borghese e sputano sulle antiche compagne di bordello.

Con questo, smetto di fare la vipera, lo giuro. Volevo solo dire questo: la "missione" dell'artista, forse, non è mai esistita. Esiste però un'insopprimibile vocazione, che non può essere cancellata nemmeno dai volubili meccanismi del mercato e dell'entusiasmo popolare. Noi non facciamo arte perché è superiore. Facciamo arte perché la razza umana è piena di passioni e noi siamo intensamente, disperatamente umani.



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