Un suono dirompente, per niente soporifero, somigliante a quello ch’emette una locomotiva, coglie d’istinto la protagonista di questo romanzo, in direzione di un mondo intuitivamente diverso, con profonde tenebre ad accoglierla, a circondarla.
Erano anni invece che Dago si sforzava a svoltare con il suo
lavoro, volendo solo darsi alla fuga, sapendo in fondo di non appartenere a un
team di giornalisti, tra cui Fulvio, che non conoscevano il significato di un
termine, qual è Integrazione.
A differenza di Tommaso, a cui, una volta che lo convocarono
per attivarsi nel nosocomio a lui caro professionalmente, gli garantirono un
posto fisso di personale gradimento in un delicatissimo ramo della sanità, che
colse al volo desiderando appunto curare i malati di cancro.
Dalla narrazione s’evince che la fine della vita non è una
disdetta… alcune esperienze possono venire rimarcate non prestando attenzione
alla durata né alla dimensione, come a occupare un posto a sprezzo del
disorientamento, e badare a porsi in Essere, a esistere.
Nora pativa sempre uno sfregio alla dignità, sua come a
quella degli altri, intenta dunque a solidarizzare le veniva normale appuntare
riflessioni, raccogliere fiori di nervo scoperto, col rischio di deprimersi per
principio.
Dago semmai dipende da una presenza reale, femminea, più
forte di qualsiasi desiderio o gioco della mente… del resto godeva sprofondando
nell’ultraterreno, così impeccabile, incantevole, giacché ignaro dell’infinito,
con un senso dell’abbandono ancora impossibile da descrivere.
Mentre Nora a Tommaso stava a cuore davvero, benché lei
avesse la precedenza nella sua di vita, per la prima volta a Dago prendeva
di sedare l’istinto come se non valesse più scappare, dovendo allora fermarsi e
udire il niente, fino a inabissarcisi e assistere a un determinato evento.
La bellezza del patimento si rivela sprofondando e Nora
sfrecciava, magari con tutta una serie di respiri incondizionati, da sempre,
piuttosto di mantenersi come un impegno per sé se non come una noia per gli
altri.
D’incanto, si blocca l’ingranaggio dell’orologio, roba di un
attimo puramente parziale, per incassare tutt’a un tratto un nuovo contributo
dalla memoria, preziosissimo, a proposito del suo fare materno, così precoce
quando una creatura che incorpori la senti che chiede di uscire, aggressiva,
disperata.
Fabio non è in grado di muoversi lì, le regole dell’ospedale
nello specifico (Tommaso a parte) lo mettono a disagio, desiderando nient’altro
che lanciare uno e più sguardi a Nora, sperando di coglierne l’attimo e basta.
Il lettore constaterà come qualsiasi contatto umano, inclusi
quelli che si rilevano chattando, arrecano una specie di novità, che alimenta
un bagaglio emozionale da aprire giocoforza, come a dover attenersi a delle
ricorrenze fissabili sul calendario, bene o male.
Che poi, poteva chiamarsi diversamente Dago: il figlio di
Nora se lo immagina propenso alla disinfezione dei sanitari… intanto la
temperatura corporea della donna sembra che non voglia calare, perdurando
critica dentro di sé, sotto controllo di volta in volta.
Un accenno d’ottimismo consiste nell’immaginare una singola
concezione spirituale aderente ai delicati particolari della naturale interezza
terrena, visto il fato, sfruttato per giocoso assillo, trattato come una
bestiola della strada, come a volersi riscattare dopo una fallimentare battuta
di caccia.
A Nora un proprio segno d’invecchiamento la incantava in esclusiva, fermandole il
tempo, oltre agli svariati accessori scompigliati alla mercé, in un mercatino
qualunque, che, quando ne aveva modo, si divertiva molto a renderlo alla sua
portata.
Al contempo, in amicizia, Dago esigeva osservanza e riserbo,
ed effettivamente Silvano se ne stava al suo posto dimostrando affetto al
momento opportuno, quando c’era d’accogliere il primo, riabbracciandolo nel bel
mezzo di una realtà metropolitana.
Talvolta qualsiasi distacco dalla radice funge da trappola,
dietro Eleonora guadagna chilometri una memoria in preda alla rabbia, giacché
ignota per chiunque, specialmente Tommaso, cerchi d’interpretarne lo sviluppo,
l’astrazione inerente ai rebus e l’identità di tutti i fiori con cui omaggiarci.
Ma Dago, il giornalista, non smetteva affatto di sorprendere
la donna, con ipotesi originali, adattabili al vissuto, sprigionandole un
profumo rievocante il mare d’istinto più o meno, a un’andatura elegante,
convincente, in mezzo alla massa avente un look più aggraziato.
La Maggi auspica della crudele immacolatezza, propulsiva per
un pudore di voce passiva ma trascinante, per distensioni armoniche,
proporzionali alle condanne che ci stanno a cuore, che ci riserviamo.
Per l’autrice un vissuto non detiene alternative, è come un
ruolo da ricoprire necessariamente spingendo all’ottimismo povere attitudini,
quelle inerenti all’immoralità quotidiana causa la mancanza di curiosità spesso
e volentieri, vedi l’agone tarantino.
Dago faticava a riacquisire serenità per equilibrare
emozioni sul punto di sradicarsi dal proprio essere, pretendendo di
rinfrescarsi il volto e sedare così del terrore a prova di psiche, ma non
poteva non riflettere su come quella donna, anche se solo in teoria, fosse in
grado di elevarlo umanamente.
Leggi e comprendi che troppa ansia non ci permette di afferrare
una sorte inconcepibile… gli esseri mediocri ritengono che lo scopo di una vita
dipende da un carattere che si porta in avanti, e in realtà molte volte
comporta l’irradiarsi di una percezione cara a un soggetto che non sta bene con
la testa.
Quando si entra in un sonno profondissimo succede un
nonsoché rievocante il tacito tepore presente dentro una donna incinta, magari
come Eleonora, che appassiona legando lungi dalla perfezione tre individui: il
figlio, il padre non riconosciuto e l’amante.
(Ed. Scatole Parlanti, 2019; pagg. 102; prezzo: 13euro).
Vincenzo Calò
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