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Contro l’impegno: riflessioni sul Bene in letteratura

 Cos’è la letteratura “impegnata”? Questa è un’espressione che si usa abitualmente per distinguerla dalla letteratura “d’intrattenimento”, quella che mira ad avvincere i lettori senza altri scopi. Insomma, creare un’opera “impegnata” significherebbe darle uno scopo in più rispetto al mero piacere… farle veicolare informazioni, conoscenze, valori. Soprattutto valori. L’idea dell’ “impegnato” è (più o meno consapevolmente) legata a quella del Bene e del Male, dello schierarsi a favore del primo contro il secondo. 

walter siti contro l'impegno

            Ecco perché Walter Siti ha sentito il bisogno di scrivere Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Milano 2021, Rizzoli).

            L’autore del saggio è originario di Modena e vive a Milano. Ha insegnato presso le università di Pisa, di Cosenza e dell’Aquila. Oltre a occuparsi di critica letteraria, ha pubblicato creazioni proprie, fra cui Resistere non serve a niente (Premio Strega 2013).

            Cosa può osservare qualcuno che si occupa di letteratura sia come autore che come lettore competente di opere altrui?

 Innanzitutto, che accostare l’idea di “letteratura” a quella di “Bene” può portare o a situazioni imbarazzanti o a semplificazioni mortificanti. Pensare che un grande scrittore debba aver lasciato solo pagine esemplari porterebbe a censurare lo stesso Giacomo Leopardi, nel momento in cui si abbandona a osservazioni fortemente misogine verso la sua amata “Aspasia”. La letteratura non è “Bene”: è l’espressione di personalità, civiltà, epoche, che - per la loro stessa natura - non possono essere unidimensionali. Non possono essere proposte in blocco come “esemplari” - né censurate altrettanto in blocco, per non rischiare di perdere conoscenza.

            Soprattutto… perché mai esiste l’esigenza di proporre insegnamenti attraverso la letteratura?

Siti coglie il legame fondamentale tra il pedagogismo della scrittura “impegnata” e le forme di massificazione della cultura.

“Alla letteratura si è sempre chiesto di essere ‘morale’[…] Quel che oggi mi pare diverso, e mi preoccupa, è la consegna generalizzata di rivolgersi al maggior numero, semplificando ed esteriorizzando i testi. Un tempo i mecenati chiedevano prefazioni elogiative, finalità encomiastiche, ma la complessità non era scoraggiata; la domanda di ‘popolarità’ veniva piuttosto dalla Chiesa, o dai regimi totalitari…” (Pp. 20-21)

Semplificare, sminuzzare, rendere piatto e facilmente imitabile: ecco la ricetta della “letteratura impegnata” di oggi, secondo Siti. Tutto bianco o tutto nero, formule ripetute e ripetibili, fatte per un pubblico che si suppone incapace di digerire la complessità. Vero o no che sia questo quadro, l’autore esamina diversi casi.

Fra i nomi illustri citati da Siti, non può certo essere taciuto quello di Roberto Saviano. Il suo Gomorra (Mondadori, 2006) è un rarissimo esempio di giornalismo letterario. Solitamente, il giornalismo e la letteratura si escludono a vicenda: il primo deve essere asciutto, immediato, senza fronzoli; la seconda deve costruire, dare emozioni, consentire l’immedesimazione. Gomorra riporta fatti e dati reali, ma dando la sensazione di potersi calare nella storia, come farebbe un romanzo. Un unicum dato dal fatto che, all’epoca in cui lo scrisse, Saviano poteva circolare liberamente e vivere la realtà da lui riportata nero su bianco. Giunta la necessità di vivere sotto scorta, anche la sua scrittura ne ha inevitabilmente risentito. Lo stile emotivo e coinvolgente è rimasto, ma senza quella peculiare alchimia fra “vissuto” e “raccontato” che caratterizza il suo capolavoro. Perché non si tratta più di “vissuto”. La presenza fisica di Saviano sul campo è stata sostituita dalla sua presenza televisiva, dal suo farsi “aedo popolare della criminalità, tanto più sicuro della propria missione quanto più è limitato nei movimenti” (p. 77). Forse, un’opera di autentico “giornalismo letterario” è una di quelle grazie che capitano una volta al secolo.

La difficoltà del mescolare il vero al falso, la verità alla storia attanagliava già Alessandro Manzoni, di cui Siti tratta nell’intermezzo Divagazioni su giornalismo e letteratura. Come è piuttosto noto, Manzoni abbandonò il genere del romanzo storico perché “impossibile”: non sarebbe più riuscito a conciliare la libertà dell’invenzione romanzesca con il rigore della ricostruzione storica. C’era anche da considerare lo stridore fra il “vero poetico”, sorta di visione eterna e incorruttibile di platonica memoria, e il “vero positivo”: quello della “sporca” e “complicata” realtà. Il punto è questo, secondo Siti: la verità fattuale (storica o giornalistica che sia) e la verità letteraria funzionano secondo due logiche completamente diverse. La prima deve essere chiara, il meno ambigua possibile, e tenere conto della comune logica per cui “A non può essere B”. La seconda si fonda sull’ambiguità, ovvero sulle sfumature e sullo spessore dei personaggi, della trama, delle idee sottese alla vicenda. Un romanzo in cui tutto è logico e immediato risulta inevitabilmente piatto, quindi “falso”, come una scenografia inaccurata. 

“Per la scrittura letteraria l’ambiguità è fondativa e ineliminabile, il testo letterario è un insieme dove tutto può combinarsi con tutto, ogni parallelismo e suggestione sono leciti; in letteratura i colpevoli sono anche innocenti e gli innocenti anche colpevoli, non c’è particolare che non possa essere infinitizzato e generalizzato, diventare metaforico, simbolico, emblematico o mitico.” (Pp. 148-149)

            Insomma, quanto di più lontano dal “Bene”, ovvero dall’esigenza di rafforzare l’etica su cui si fonda una società.

            Ecco perché i tentativi di “fare letteratura basata sulla realtà” danno spesso risultati discutibili. Per esempio, Siti sottolinea come le opere “impegnate” cadano spesso in un vittimismo alla Richardson, in cui l’eroe è “vittima innocente” sempre e comunque - anche quando sbaglia - senza dare alla sua figura le sfumature tipiche di una persona reale. È il caso di un non-fiction novel di Giuseppe Catozzella: Non dirmi che hai paura (Feltrinelli, 2014): la storia di Samia Yusuf Omar, una ragazza di Mogadiscio annegata nel 2012 sulla rotta di Lampedusa. Si era gettata in mare per paura di essere rimandata in Libia. Godeva anche di una discreta notorietà, per aver partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008. Stando a Siti, la Samia ritratta dalla penna di Catozzella è una sorta di novella Clarissa Harlowe, con tanto di narrazione in prima persona. La persona reale viene dipinta di una “porporina d’oro impastata di lacrime” (p. 161); è ammantata di perfezione, qualsiasi suo errore viene giustificato, perde il peso dell’umanità per diventare un’icona esemplare (di sofferenza, femminismo, multiculturalismo, libertà, tenacia, ecc.). “…la Samia incontrata leggendo è un esempio virtuoso [...] non una ventunenne sfortunata in carne e ossa, con le sue contraddizioni e le sue ombre” (p. 164).

            Cosa succede, invece, se si cede la parola ai carnefici? L’ha fatto Francesca Mannocchi, in Io Khaled vendo uomini e sono innocente (Einaudi Stile Libero 2019). Il protagonista nominato nel titolo è un giovane libico trafficante di migranti. Si arricchisce riempiendo i barconi, ma - contemporaneamente - garantisce un servizio di tutela alle aziende che operano in Libia. L’autrice conosce di prima mano la realtà che narra: fornisce descrizioni precise, conosce i giochi di parole in arabo, riporta chiacchiere rancorose ascoltate in loco. Siti definisce Mannocchi “una persona straordinariamente acuta” (p. 166) e “una giornalista di razza” (ibid.). È in grado di criticare la pigrizia dei “giornali occidentali” e anche di smascherare le ipocrisie di politici, imprenditori e dell’opinione pubblica italiana. Questo per quanto riguarda le sue capacità di reporter. Siti non è altrettanto entusiasta delle sue prestazioni come romanziera: trova che la lingua parlata dal protagonista sia “la solita lingua standard di questi libri a sfondo educativo e di protesta” (p. 166), ravvivata ogni tanto da proverbi “etnici” e da un “barocco mediorientale”, o da un “gergo da noir”. I dialoghi, secondo Siti, sono piuttosto didascalici (“più utili ai lettori che agli interlocutori”, p. 167). Khaled, stando al critico, è certamente un personaggio che sa emozionare; ma Siti non vi trova uno spessore sufficiente per attribuirgli grandezza letteraria. A suo modo, è anche lui una vittima esemplare: della sua coerenza nell’aver scelto il “lavoro più sporco” e del suo non saper essere cattivo fino in fondo. Ancora una volta, alla rettitudine inattaccabile di messaggio e autore/trice si sposa una letteratura che non funziona come tale.

            Il saggio di Siti è impossibile da riassumere qui. Esso passa in rassegna diversi fenomeni della cultura “impegnata” d’oggigiorno, considerando anche la televisione generalista.

Qual è la preoccupazione sottesa alle sue analisi? Che la letteratura si lasci dominare dall’ansia di essere didascalica e moraleggiante, perdendo ciò che ha di più prezioso: l’avventura conoscitiva, la sua capacità di portarci a esplorare lati dell’umano ignoti all’esperienza quotidiana - al di là delle stesse idee di “Bene” e di “Male”.

“…la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza, alleandosi a quei fondamentali temi umani che gli ‘esercenti di questa terra’ (politici, industriali, opinion makers) trascurano e rimuovono: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il desiderio di schiavitù, il rancore, l’inconcludenza, la stupidera - il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese. […] solo quando fa male, la letteratura può davvero essere utile.” (Pag. 263)

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