Ciò
che amo, nella critica letteraria di Mario
Praz (Roma, 1896 – 1982), è il fatto che sia coinvolgente come un romanzo.
Quando si focalizza su letteratura gotica, Romanticismo e Decadentismo, poi, m’invita
a nozze.
Gustave Moreau, Salomé che porta la testa di San Giovanni Battista su un piatto (1876) |
Mi riferisco a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (prima
edizione Sansoni 1930; quinta edizione BUR Saggi aprile 2015). Una rispettabile
orgia.
Entra subito in argomento con la “bellezza medusea”: quella che Shelley
trovava nella Medusa esposta nel
Corridoio del Cinquecento degli
Uffizi e attribuita prima a Leonardo da Vinci, poi a un anonimo fiammingo. ‘Tis the
tempestuous loveliness of terror, che anche il
Faust goethiano gustava nella Notte di Valpurga, contemplando il fantasma della
decapitata Gretchen. Un animo propriamente romantico non concepisce bellezza e
piacere, se non legati alla sofferenza, alla melancolia, finanche al macabro.
Romantico è l’estremo d’ogni sensazione e gli estremi coincidono.
Dalla creatura infera degli antichi
al demonio cristiano: ecco le “metamorfosi
di Satana”, che Praz ripercorre da Tasso e Marino fino all’epoca che gli
interessa. Da mostro grottesco ad angelo caduto con gli occhi pieni di
tristezza: è il Satana di Milton,
pieno d’innegabile fascino. Ad esso, secondo Praz, s’ispira il tipo del “bandito generoso”, nei romanzi di fine
Settecento. È il caso del Karl Moor schilleriano, protagonista del dramma I masnadieri (1781): un animo altero e
nobile, il cui crimine è il rifiuto di umiliarsi. Seguono i malvagi di Ann
Radcliffe, signora del romanzo nero inglese. Il suo Schedoni, l’Italiano (ovvero Il confessionale dei penitenti neri,1797) è un monaco: un tipo di “cattivo” particolarmente caro agli anglicani
dell’epoca, che vedevano nella cattolica Italia la sentina di tutti i mali. Non
è improbabile, come rileva Praz, che la sua figura sia ispirata all’Ambrosio di
Matthew Gregory Lewis, autore del delirante Il
monaco (1795). Anzi: Lewis stesso affermò d’aver ricevuto lo spunto per un
romanzo gotico proprio leggendo I misteri
di Udolfo della Radcliffe. Un circolo vizioso, o virtuoso, se volete.
Le
metamorfosi di Satana ripercorse dall’autore culminano nell’eroe byronico, grande nelle tenebrose
passioni e nel fascino fatale che sa ispirare. Il suo amore distrugge - e
questo porta alla prossima tappa, “All’insegna
del Divin Marchese”. Si, è lui: De
Sade. Alla sua celebre filosofia del godimento tratto dalla sofferenza
altrui e dalla sopraffazione si ispirò una sfilza di romanzi d’appendice con
giovinette perseguitate da tiranni sanguinari. Famosa è la Clarissa (1748) di Samuel Richardson:
“È stato notato a più riprese come l’unzione pietistica dei romanzi del Richardson riesca a coprire solo in apparenza il fondo sensuale e torbido.” (M. Praz, La carne…, 2015, BUR, p. 87).
Né
lui, né De Sade, né gli altri che svilupparono simili trame diedero mai segno
di sentirsi in colpa. È la Natura, bellezza: potrebbe essere
il loro motto. Se il piacere, in ogni sua forma, viene da un potere più grande
di quello dell’uomo, perché ribellarsi a esso? Non ne verrebbero che disgrazie,
come dimostrano le sventure della “virtù” incarnate da Clarissa, dalla sadiana
Justine e dalle loro emule. Il sadismo, così com’è rilevato da Praz negli
autori settecenteschi, è una sorta di vendetta degli istinti naturali repressi.
Ma ben più in là andranno gli animi ottocenteschi, già imbevuti di scene
strazianti e raccapriccianti fini a se stesse:
“… la teoria romantica affermando che il miglior mezzo per esprimere le passioni fosse di cominciarle a sentire, invece di tradurre nell’arte i dati spontanei della vita si cercò di esperimentare nella vita i suggerimenti mostruosi della fantasia nutrita d’orrori libreschi. Si ebbero così le passioni alla Byron, i suicidi alla Chatterton, e così via.” (Op. cit., p. 116)
A
fornire una versione femminile dell’eroe byronico, arriverà il tipo de “La
Belle Dame Sans Merci”. Il titolo è quello d’una poesia di John Keats,
datata al 1819: una ballata medievaleggiante a tema fantastico. Un cavaliere,
stregato da una bellissima dama di probabile stirpe elfica, ne diviene per
sempre prigioniero, come molti altri. Insomma: lei è il prototipo della donna
fatale. Ne era già stata un esempio la Matilda del Monaco di Lewis: seduttrice e praticante di magia nera. Caratteri
esotici sono assunti dalla femme fatale in
Théophile Gautier: si pensi alla sua Una
notte di Cleopatra (1838). Nella novella, la celebre regina concede una notte
di follie a un giovane cacciatore innamorato di lei. Ma quel piacere non potrà
che terminare con la morte: la conoscenza di quel corpo inattingibile è un fine ultimo. Una volta raggiunto
quello, l’esistenza non ha altri obiettivi. Sarebbe difficile trovare una
spiegazione migliore del fascino della belle
dame sans merci.
In tutto questo, c’entra anche il
celebre sorriso della Gioconda:
espressione d’impenetrabilità, di fascino sinistro, di riassunto d’ogni esperienza
del mondo. Una donna fatale senza saperlo.
Parlando di esotismo, eccessi, eclettismo
“decadenza”, non si può che approdare a “Bisanzio”:
titolo simbolico del capitolo che di tutto questo tratta. Compare qui Gustave
Moreau (Parigi, 1826 –1898), autore di ritratti di Salomé (la figlia di
Erodiade che, col fascino della sua danza, ottenne la decapitazione del
Battista) e dell’Elena omerica. Entrambe statuarie, gelide e sfolgoranti di
gemme. Entrambe che assistono al sacrificio umano tributato alla loro bellezza.
Il fatto che Salomé sia un personaggio biblico è poi indicativo di un clima che
si respira anche nella letteratura coeva.
“Huysmans, Verlaine, Barrès, Léon Bloy, e più recentemente Henry de Montherlant sono altri ben noti esempi di torbido cristianesimo. Un caso analogo offre Dostoevskij. Data la base estremamente compromessa su cui s’imposta la religione di simili scrittori, è legittimo il sospetto che, presso di loro, anche nelle manifestazioni in apparenza più innocenti quella religione non sia che una larvata forma di soddisfazione morbosa: la contrizione può esser soltanto una maschera dell’algolagnia.” (Op. cit., pp. 266-267)
L’ora
è tarda e i miei occhi si riempiono di sabbia. Debbo chiudere su questi magnifici
mostri, dei quali non riesco a scrivere senza un’elettrica agitazione. Nemmeno
se sono filtrati da tutta l’erudizione di Praz.
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