Il
patchwork (“lavoro a pezze”) è un’antica arte nata per necessità: quella di
coprirsi e vestirsi riutilizzando i pochi tessuti a disposizione. Oggi, è una
passione, nata dal piacere di giocare con le forme e i colori delle stoffe. È
anche un modo per stare insieme. Con questa tecnica, si realizzano spesso
trapunte: coperte a tre strati. La “trapuntatura” è, appunto, la cucitura che
li unisce.
Dal
21 al 23 aprile 2018, i manerbiesi hanno potuto gustare quest’arte nella Biblioteca Civica, che ha ospitato la mostra: “Storie di pezze e di amicizia”.
Essa raccoglieva le realizzazioni di Nicoletta Manganelli, maestra di cucito, e
delle sue allieve-amiche. L’idea dell’evento è stata offerta al bibliotecario
Giambattista Marchioni da Gabriella, una delle espositrici. Giambattista ha
aggiunto l’idea di creare una grande parete composta da pezze di stoffa,
offerte dai manerbiesi. In questo modo, il patchwork, oltre che una storia d’amicizia,
ha concretizzato una comunità.
Ogni “quilt” (trapunta) esposto si
componeva di “piastrelle”, a loro volta costituite da “tessere”. Il lavoro
poteva essere “all’inglese” (con figure geometriche prima ritagliate su carta e
poi cucite a mano), “all’americana” (eseguito a macchina) o un giapponese
“atarashii”: un assemblaggio di riquadri già imbottiti. Quest’ultima tecnica
crea intarsi di cerchi e quadrati e deriva dall’origami. Nel gioco del
patchwork, la scelta dei colori può “rivoluzionare” un disegno.
Assai presenti nella creazioni era
il riferimento agli Amish: membri di una confessione protestante, originari
della Svizzera e del Palatinato. Immigrarono in Pennsylvania nel XVIII sec. Secondo
le espositrici, i loro patchwork erano molto severi, ma si arricchirono
esteticamente grazie al contatto con le donne americane.
La maggior parte delle creazioni
erano state eseguite da Nicoletta Manganelli. Suo, per esempio, era “Il mio
giardino della nonna”: già esposto in diverse città italiane, fra cui Firenze,
allo Spedale degli Innocenti. Oppure, per restare in tema: “Dedicato agli
Amish”, eseguito all’inglese e già esposto nello stesso luogo di cui sopra,
oltre che al Museo della Donna di Ciliverghe. “Voli di fantasia” è comparso
alla manifestazione Bergamo Creattiva, oltre che su giornali specializzati.
“Omaggio a Victor” alludeva al pittore V. Vasarely (Pécs, 1906 – Parigi, 1997),
famoso per motivi geometrici particolarmente consoni al patchwork. “Finestra
sul giardino” era un watercolor a macchina, eseguito con la tecnica
dell’appliqué reverse a mano: una sovrapposizione di tessuti, in cui studiati
ritagli negli strati superiori fanno emergere il colore di quelli sottostanti.
Col nome di “mola”, questa tecnica è tipica dei Cuma (o Kuma), nativi delle
Isole San Blas, presso l’Istmo di Panama. Assai illusionistico era anche “Cuori
o farfalle?”, eseguito a bargello: nome di un ricamo fiorentino, i cui effetti
sono stati ripresi dal patchwork.
Della sunnominata Gabriella erano
presenti, ad esempio: “Log Cabin” (espressione che indica sia un centro abitato
degli USA, sia la “baita”); “Piatto di Dresda e nodo di cravatta”; “Card trick”
(“Trucco di carte”).
Di Monica Girelli era “Summer
Green”, un lavoro all’americana, trapuntato a mano. Sempre suoi erano i vitrail
“Foglia” e “Anima blu” (comparso al concorso “Il colore che mi rappresenta”,
bandito da Quilt Italia), così come il pittorico “Casa Howard”, o il paper
piercing “Il centro del mondo… casa” (mostra “Punto dopo punto” di Manerba del
Garda).
Questi
sono solo alcuni esempi delle creazioni ospitate dalla biblioteca. Col
patchwork, le amiche avevano realizzato di tutto: segnalibri, orecchini, borse…
Persino quadretti con vedute di Brescia. Il tutto con un sottinteso espresso da
una frase: “Chi dorme sotto un quilt, dorme sotto una coperta d’amore.”
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