La
Libera Università di Manerbio (LUM) ha dedicato una lezione a: “Pizza,
spaghetti, pomodoro, cappuccino e tiramisù: la cucina italiana patrimonio
dell’umanità”. Il 3 maggio 2018, al Teatro Civico “M. Bortolozzi”, ne ha
parlato Gianfranco Bertoli, giornalista e buongustaio. Pur essendo diffusa a livello
mondiale, la cucina italiana continua a parlare italiano. I termini citati nel
titolo della conferenza sono infatti intraducibili. Bertoli ha menzionato la
presenza di ristoranti italiani stellati in diversi continenti, ma soprattutto del
peso economico dell’esportazione di prodotti alimentari per questo Paese. Ciò
vale in buona parte per il vino.
Tra le cucine che possono dirsi
patrimonio dell’umanità, Bertoli ne ha citate quattro. Quella centroamericana,
ereditata dai Maya e dagli Aztechi, nacque come esperienza quasi religiosa e
donò all’umanità “il cibo degli dei”: il cioccolato. Quella giapponese si basa
su una ritualità millenaria: il sushi consumato in Occidente è solo un pallido
riflesso di un’arte che richiede ai suoi maestri un decennio d’apprendistato.
Sempre giapponese è la scoperta del quinto sapore, dopo il salato, il dolce,
l’acido e l’amaro: l’ “umami” (“grasso”), quello del glutammato, riconosciuto
da specifici recettori presenti nella lingua.
La cucina francese (chi non ricorda “Il pranzo di Babette”?) è quella delle regole e della modernità codificata.
Nacque dalla sapienza dei cuochi a servizio degli aristocratici, che prestarono
i propri servizi ai borghesi dopo la Rivoluzione. Essa comprende anche una
minuziosa preparazione della sala, nonché l’organizzazione della cucina (“chef”
vuol dire “capo”). Buona parte della sua sapienza consisteva nell’abbinare ai
piatti salse che ne nascondessero o migliorassero i sapori poco freschi degli
ingredienti. Ma francese fu anche la “nouvelle cuisine”, nata all’inizio degli
anni ‘60. La diffusione dei frigoriferi aveva reso superflui i trucchi di cui
sopra. Nacque così un’arte che combinava prodotti freschi in piatti singoli
(non di portata), considerandone anche la piacevolezza visiva.
E la cucina italiana? Bertoli l’ha
definita come quella del piacere: piacere di mangiare, di stare a tavola in
lungo e in compagnia. È anche salubre e digeribile, varia e calibrata. Deve
molto, comunque, alla capacità di assimilare altri stili alimentari: la
carbonara, per esempio, sarebbe nata verso la fine della Seconda Guerra
Mondiale, utilizzando le uova e il bacon degli occupanti americani. Per non
parlare del pomodoro, che (è risaputo) viene sempre dall’America.
Paradossalmente, una cucina propriamente italiana non esiste. A essere
apprezzate e famose sono diverse cucine regionali, in dialogo fra loro. La
dieta mediterranea accomuna poi molti Paesi: tutti quelli bagnati dal mare eponimo.
La gastronomia non si fonda sui confini politici, ma sulla natura dei territori
e dei climi.
Gianfranco Bertoli |
La cucina detta “italiana” cominciò
a diffondersi per via delle migrazioni. I suoi primi portatori non erano dunque
specialisti, ma lavoratori di fatica che realizzavano ricette casalinghe per le
comunità di connazionali. Tra il ’60 e il ’65, ebbe inizio il fenomeno inverso:
le emigrazioni di cuochi dall’Italia. Anche i prodotti locali cominciarono a
essere esportati. Come in ogni caso di grande successo, si verificano
imitazioni. Si pensi al cibo “Italian sounding” (“che suona italiano”), o al
Parmesan: finto parmigiano statunitense.
Secondo Bertoli, il modo per non
sottrarre quote di mercato ai prodotti italiani è puntare sulla loro qualità e
sulla serietà circa l’effettiva provenienza. Per il resto, il fatto di essere
digeribile e di non richiedere tecnologie complicate sono stati da lui indicati
come punti di forza della nostra cucina.
Pubblicato su Paese Mio
Manerbio, N. 132 (maggio 2018), p. 5.
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