Silvia
Vegetti Finzi (Brescia, 1938) è psicologa e psicoterapeuta per i problemi
dell’infanzia, della famiglia e della scuola. Figlia di padre ebreo e nata
nell’anno delle leggi razziali, è nota anche per la situazione di precarietà
che l’antisemitismo comportò per la sua vita.
Ciò che non tutti sanno è che
frequentò le scuole elementari a Manerbio. Per questo, le è stato dedicato un
incontro in cui ha anche ritrovato le sue compagne di classe. Il 5 maggio 2018,
il Teatro Civico “M. Bortolozzi” ha ospitato: “Una bambina senza stella.
Manerbio rincontra Silvia Vegetti Finzi”. L’evento era firmato dai loghi del
Comune, dell’A.N.P.I., dell’I.S.Lo. (Istituto Studi Locali) di Manerbio,
dell’I.I.S. “B. Pascal” e degli Amici della Biblioteca. Nel libro omonimo
(Rizzoli, 2015), la storia di una bambina traveste i ricordi dell’autrice. È
“senza stella”, perché non le fu mai cucita indosso la famosa stella giudaica.
Ma anche perché nacque “senza buona stella”. Eppure, la Vegetti Finzi non
racconta una storia lacrimevole. Il sottotitolo è: “Le risorse segrete per
l’infanzia per superare le difficoltà della vita”. Risorse di cui ci si
dimentica oggigiorno, in modelli educativi spesso eccessivamente protettivi -
come ha sottolineato l’autrice a Manerbio: «Il rischio ci aiuta a conoscerci».
La risorsa principale di cui parla è il gioco, la capacità di trovare in esso
ciò che le circostanze ci negano. Con l’autrice, ha dialogato Francesca Nodari,
presidentessa della Fondazione Filosofi lungo l’Oglio.
Silvia Vegetti Finzi e Francesca Nodari |
Grazie ai ricordi (d’archivio),
l’autrice ha ritrovato la figura materna, con la quale ebbe un “non-rapporto”.
Per i primi cinque anni di vita, non crebbe con lei, che aveva raggiunto il
marito rifugiatosi in Africa. La madre fu anche la sua maestra elementare. La
figlia iniziò a vederla «con gli occhi degli altri», quando l’insegnante occupò
il suo posto nella scuola e attirò l’attenzione col suo aspetto di “forestiera”.
Manerbio
era “divisa in due”: la modernità della città sociale Marzotto e il tempo
immobile del centro storico. Nell’asilo delle suore, la piccola era una
“presenza assente” - cosa che, nel generale clima di paura, la rassicurava
persino. Chi non esiste non può essere colpito. Inutile nascondere le
situazioni ai bambini: anche se non le capiscono, “hanno le antenne” per
captarle. E non si può imporre loro un’identità fittizia, come cercò di fare la
madre per salvare Silvia bambina. Per i piccoli, nome e identità coincidono. Anche
l’autoidentificazione con Shirley Temple, per quanto gratificante, fu un
allontanamento da sé.
Il
gioco delle bambole fu un modo per realizzare quell’amore materno che non
trovava altrimenti. «Il paradosso dell’amore è questo: si può dare ciò che non
si ha».
E
la scuola? Materiale di scarsissima qualità, classi affollatissime, orari a
singhiozzo e continue assenze. Eppure, sua madre riuscì ad accompagnare tutte
le allieve nel percorso formativo.
Particolarmente
gradito è stato il ricordo della festa di Santa Lucia: in un’epoca in cui ci si
poteva permettere poco, i semplici regali notturni della santa avevano
realmente il valore antropologico d’illuminare l’inverno.
Poi,
i ricordi della guerra, dall’ottica ingenua dell’infanzia (“Pippo”,
quell’essere antropomorfo che era, in realtà, un aereo da bombardamento) a una
visione più matura e ampia. Nel dopoguerra, esplose la sessualità: voglia di
vivere dopo la continua minaccia della morte. Anche l’economia conobbe
un’impennata e, con essa, alternative di vita possibili. Un sapore che era
stato anticipato da quella maestra (non sua madre) che aveva valutato la
bambina come “molto più intelligente” di due coetanei maschi. Per una che era
vissuta sotto lo stereotipo delle “femminucce ochette”, era stata una sorta di
Liberazione anticipata.
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