Passa ai contenuti principali

Un tesoretto celtico

Tra il 2006 e il 2007, a Manerbio, l’attenzione dei cittadini fu in buona parte occupata dalle “fàlere”. Si trattava di finimenti in argento per cavalli, ritrovati nel 1928 presso la cascina Remondina. Il termine deriva dalla parola greca “phàlara”, ovvero “borchia”. Questi oggetti, infatti, sono in lamina metallica e di forma rotonda. Quelle di cui stiamo parlando sono un prodotto artigianale antico e pregiato, ma che non fu presentato a Manerbio – località di ritrovamento – prima del 2006. 

            I carabinieri che, nel 1928, consegnarono le fàlere al direttore dei Musei di Brescia, le descrissero come “piccoli piatti”. Erano state rinvenute da Faustino Cominelli e Domenico Petrali, contadini al servizio del nobile Federico Gorno, mentre ampliavano la buca del letame. All’epoca, furono credute di epoca longobarda. Carlo Albizzati, nel 1933, le definì invece come celtiche. La Pianura Padana, per l’appunto, fu abitata dalla popolazione celtica dei Galli Cenomani dall’inizio del IV secolo a.C. La parentela delle fàlere coi loro manufatti è ipotizzabile grazie ad alcuni elementi di somiglianza. I resti di catenella che le accompagnano sono simili a quelli ritrovati in siti di roccaforti celtiche in Boemia e Moravia, non databili prima del I sec. a.C. Sul bordo delle “fàlere”, corrono immagini di teste ovali simili a quella rappresentata su una moneta d’argento del I sec. a.C., attribuibile ai Taurisci, che abitavano nella zona orientale dell’arco alpino. Quattordici fàlere tracie ritrovate in Bulgaria permettono un confronto ancora più chiaro. Altri reperti ritrovati in Europa orientale, nei pressi dei Carpazi, e databili alla prima metà del I sec. a.C., documentano l’uso di queste borchie artistiche come finimenti per cavalli. Guerrieri con cavalcature così bardate sono infatti rappresentati su una moneta dei Boi della Pannonia (tra le attuali Croazia e Ungheria) e sul calderone rinvenuto a Gundestrup (Danimarca). 

            La più grande, al centro, reca un segno detto, in greco, “triskele”: un simbolo solare formato da tre raggi curvilinei. Il bordo delle fàlere è invece decorato, come abbiamo detto prima, da immagini di teste. Esse, probabilmente, alludono alle teste dei nemici vinti in battaglia, riportate come trofei dai guerrieri celtici. È possibile anche un’interpretazione magica e religiosa: si riteneva che, nel capo, risiedesse la forza dell’individuo; il volto, come maschera, poteva rappresentare la divinità.
            Le fàlere di Manerbio sono custodite nel Museo di Santa Giulia a Brescia, nella sezione “L’età preistorica e protostorica”.
            Per saperne di più: Le fàlere a Manerbio. Ornamenti in argento per cavalli, un dono tra capi di genti celtiche del I secolo a.C., a cura di Francesca Morandini con un contributo di Venceslas Kruta, catalogo realizzato in occasione della mostra presso il Museo Civico di Manerbio, 8 ottobre 2006 – 8 aprile 2007, Edizioni Et, Milano 2006.


Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 111 (agosto 2016), p. 7.

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.   Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: i