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I mangiatori di loto



“Non meditavano la morte ai nostri compagni/i Lotofagi, ma diedero loro da mangiare del loto./E chi di essi mangiava il dolcissimo frutto del loto/non aveva più voglia d’annunziare e tornare,/ma preferiva restare lì tra i Lotofagi/a cibarsi di loto, e obliare il ritorno.”

Odissea, IX, vv. 92-97.
 
 

Si sistemò sulla sedia imbottita. Un lieve movimento delle gambe, delle braccia –nient’altro. La lezione era cominciata alle nove del mattino; non avrebbe saputo dire che ore fossero, al momento. Intuì che la luce diffusa non era più quella del giorno. Davanti a lui, l’insegnante –la dott.ssa Cinzia Solari- sorrideva sempre, con quella caratteristica serenità che la faceva sembrare una lampada d’alabastro. Qualcosa d’indefinibile, come una pacata estasi, la percorreva in tutta la figura sottile, nelle gambe tornite, nelle orecchie di madreperla, nelle ciocche biondo-rossicce, fino agli occhi verdi con pagliuzze dorate che riverberavano dietro le lenti. O, forse, a fargliela sembrare angelica era la nebbia che gli galleggiava nella testa, in cui affondavano, come petali, gli orari, i pensieri di tutti i giorni, gli stimoli corporali.
            «Ora, chiudete gli occhi!» modulò la Solari.
Eseguì, come, sicuramente, stavano facendo le altre venti persone presenti nella stanza. Un’aula ampia e luminosa, al secondo piano d’una palazzina, nel centro di ***.
            Aveva incontrato i volontari dell’Associazione Lotus la settimana prima, all’ingresso d’un condominio pieno di studi privati. Un ragazzo secco e biondiccio, con gli occhi chiari, accompagnato da un altro, piccoletto e ricciuto. Entrambi avevano nelle iridi quel nitore impalpabile che imbeveva l’insegnante. Fra le mani, reggevano una cartelletta recante nome e logo (un fiore di loto) dell’associazione, il cui fondatore –aveva saputo poi- era un certo “Michele Ario, psicologo”. Con fare manieroso, gli avevano snocciolato qualcosa a proposito d’un corso di mnemotecnica, lettura veloce e strategie d’apprendimento. Aveva accettato di seguire la prima lezione, in verità assai stimolante –esercizi di enigmistica che l’avevano fatto tornare ragazzo. Poi, era entrata lei, la sirena con gli occhiali in celluloide. Aveva spento le luci e acceso un proiettore. Su uno schermo, aveva cominciato a sgambettare un neonato.
«È pieno d’energia, d’entusiasmo verso la vita che gli si è appena aperta» aveva intonato, nel buio, la voce vellutata della Solari. «Ma ha bisogno che qualcuno lo aiuti a crescere… Guardatelo. È come voi. Voi siete come lui. Siete all’inizio d’un percorso che avete iniziato per migliorarvi. Siete carichi di curiosità, di vita… Ma inesperti. Lasciatevi prendere fra le nostre braccia. Il neonato, nutrito dalla mamma, diventerà grande, intelligente e bello…»
Un singhiozzo soffocato era rintoccato nell’aula buia.
Quella sera, era tornato a casa con le membra leggere. Il suo pensiero volava a quella stanza in cui si era sentito feto, nel grembo d’una madre graziosa e dalle parole suadenti.
Si era iscritto definitivamente, chiudendo un occhio sui 1800 euro richiesti come retta. Se li sarebbe potuti permettere –per il momento.
I giorni successivi erano scivolati come olio nell’aula. Lezioni interminabili, dal mattino fino a tarda notte. Una sorta di trance gli ovattava anima e corpo, rendendogli irrilevante il bisogno di mangiare e bere. Del resto, fin dall’inizio del corso, la Solari aveva ammonito dolcemente gli allievi: «Solo acqua, carne e verdure. Non appesantitevi. Fatevi questo regalo».
Il riposo e il ristoro arrivavano con quegli strani esercizi di rilassamento che intercalavano le lezioni. Occhi chiusi, musica d’arpe o melodie di Enya. E, sempre, la voce di Lei che s’insinuava nel petto, nella testa, nelle membra; che scioglieva nodi, rompeva i sigilli di camere oscure da cui uscivano volti, timbri, sapori che neppure lui sapeva d’aver trattenuto nella memoria.
Quando aveva gli occhi aperti, spesso si trovava a figgerli in quelli del biondiccio che l’aveva indirizzato verso la Lotus –Manuel si chiamava. Con un sorriso indefinibile, gli suggeriva come ampliare il campo visivo, o memorizzare una lista di parole: «Per ricordare i nomi, bisogna legarli a concetti. Devi inventarti una storiellina per immagini in cui inserirli tutti… Qui hai “gelato”, “catrame”, “nota”, “divano”: immagina di mangiare un gelato, di scoprire che sa di catrame e di appuntarti una nota circa questa stranezza sulla fodera di un divano».
Lui eseguiva le bizzarre istruzioni di Manuel. E il risultato sorprendeva lui stesso. Si ritrovava a recitare, giorni e giorni dopo, quelle liste di parole, quegli elenchi numerici, che non avevano abbandonato la sua memoria –né più mai l’avrebbero fatto. Aveva cominciato a leggere cinque o sei quotidiani al giorno, quando non aveva lezione. Aveva abbandonato agenda e post-it. Si era ripromesso perfino d’iniziare a seguire un corso di tedesco o di arabo. Ma, per il momento, il suo unico impegno fisso era quello con la Solari e con Manuel, il suo “angelo” –così si definiva.
Fra i suoi compagni, alcuni avevano già cominciato a fare volantinaggio per conto della Lotus e alcuni di loro avevano abbandonato gli studi universitari per divenire assistenti o istruttori. Il loro zelo era a metà strada tra la devozione filiale e una competitività perfezionistica. Non davano più indizio d’avere una vita al di fuori dell’Associazione. Lui stesso –si era accorto con un piccolo soprassalto- da settimane non telefonava ai parenti o agli amici. Non aveva più risentito quella graziosa brunetta che gli aveva suggerito di rivedersi allo stesso bar. Soprattutto, aveva perso importanza il conto delle ore di sonno e di quelle di veglia –chissà se c’era ancora differenza.
            Ce n’era poca in quel momento, mentre lui era adagiato sulla sedia imbottita, a occhi chiusi, e la Solari cercava il CD da porre sul piattino del lettore. Pregustò il mondo di corde vibranti, tocchi argentini, gorgheggi d’acqua che stava divenendo, lentamente, il suo –e l’unico.
            Poi, un rumore di passi. Un cigolio di cardini.
«Cinzia!»
Quella profonda voce maschile gli risollevò le palpebre.
La Solari scosse la chioma e s’illuminò: «Oh, salve, Michele!»
Il dott. Ario le rivolse un sorriso enigmatico. Alto, bruno, aveva un naso dalla pronunciatezza quasi aquilina e sopracciglia folte. Dai suoi occhi nerissimi risalivano increspature impercettibili, come di mare in calma apparente. Il taglio elegante degli abiti denunciava un ottimo sarto.
Lui non riusciva a distogliere lo sguardo dal sorriso di Ario, da quelle labbra pompeiane che sembravano legare a lui la Solari con filamenti impalpabili. Nella foschia che possedeva la sua mente, gli parve di veder baluginare due denti aguzzi sulla bocca dello psicologo. Ma anche quella favilla si lasciò cadere, adagio, con grazia, come un petalo di loto che affondasse nel fango.

Commenti

  1. Buongiorno.

    Il tuo brano mi ricorda un romanzo che non riesco a visualizzare: ho chiare l'immagine e la sensazione, ma nome e titolo non vogliono saperne di uscire. Mi viene in mente The silver link, the silken tie di Mildred Ames, ma non credo sia il ricordo giusto. O sì? Ah, la memoria...
    Comunque grazie.
    Manlio Pittori

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Prego, Manlio. :-) Io ringrazio te per la cortesia. :-D Purtroppo, non saprei darti suggerimenti in merito al romanzo che cerchi di rimembrare, perché questo racconto è tratto da una storia vera e non da un'opera di narrativa...

      Elimina
  2. Ecco cosa mi ricordava: non un romanzo, ma una storia vera. E' incredibile, alle volte si confondono la realtà e le ipostatizzazioni della letteratura. Immagino che tu non possa e non voglia fare nomi, ma - se ho capito bene, e credo proprio di sì - la vicenda che narri ha gli stessi personaggi (reali) di una storia ben nota a chi frequenta quel mondo: e quel mondo non è tra i più commendevoli. Sì, era la realtà, questa volta.
    Grazie.
    Manlio

    RispondiElimina

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