In
realtà, non sono nuova ai confronti fra classiconi. Mi sono già occupata di
"Madame Bovary VS Anna Karénina",
ovvero: Due modi per regalare un
biforcuto copricapo al coniuge e diventare, al contempo, immortali.
Ora, sono in piena “crisi del quarto
di secolo”, perciò mi rivolgo, piuttosto, a figure di gggiovani tanto romantici, ma bistrattati dal fato e dal secolo
sciocco (O tempora! O mores!). E lo
faccio senza alcuna pretesa di serietà. Anche perché l’argomento mi fu offerto
da una conversazione con un mio burbero e arguto amico, al Caffè Vigoni di
Pavia.
«Werther è un subumano» bofonchiò
lui, coi suoi consueti mezzi termini. «Non studia, non lavora, è viziato. Non è
nemmeno capace di spararsi come si deve… Credo bene che Lotte gli abbia
preferito Albert. È molto più affidabile».
Non ci sarebbe bisogno di
specificarlo (vero?), ma la conversazione riguardava I dolori del giovane Werther, il romanzo epistolare di Johann
Wolfgang Goethe (1787). Trama: Un ragazzo
dall’animo sensibile s’innamora di
una gentil donzella di campagna, destinata però al “buon partito” della
situazione. Vedendo in ciò il segno del proprio fallimento esistenziale e del
marciume del mondo, il giovanotto si suicida.
È nota la somiglianza con la trama
di un altro romanzo epistolare, di poco posteriore: Ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo (1817). «Una
scopiazzatura becera del Werther» lo
definì un mio insegnante del liceo, anch’egli incline all’uso dei mezzi
termini. «Almeno, nell’Ortis c’è
l’impegno patriottico…» disse invece il mio amico. Io sarei tentata di votare
“scheda bianca”. Però, spezzo una lancia a favore dell’Ortis, essenzialmente per un motivo: mentre il Werther era un romanzetto giovanile (mero antipasto di capolavori
come il Faust), l’Ortis è stato praticamente l’opera della
vita, per Foscolo. Intendiamoci: anche Goethe rimise mano più volte al suo
fittizio carteggio. Ma fu soltanto per smorzarne le punte polemiche, le
imperfezioni ortografiche, le tipizzazioni troppo facili. Bisognava soprattutto
de-santificare un po’ il protagonista, per fermare quella conseguenzina da nulla che furono i suicidi per emulazione.
Quanto all’Ortis… Una lingua più biforcuta della mia potrebbe dire che Foscolo
se n’occupò così tanto perché non era in grado di partorire un Faust. Io mi limito a ripetere quello
che tutti sanno: il buon Jacopo è cresciuto insieme al suo autore. Una
gestazione imponente per un romanzo così breve. Catullo approverebbe.
Nemmeno a Werther riesco a voler
così male, poi. Sa mettere un pizzico d’incanto in ogni cosa che descrive. È un
disegnatore sensibilissimo, per il quale nulla è banale. Però… fa colare
sistematicamente a picco ogni aspetto solido della propria vita. Perde il
lavoro per futili beghe e malinteso amor proprio; si lega a una graziosa
colombella che vuol tenersi stretto il marito, ma non sa rinunciare allo
spasimante; si spara, quando tutti gli vogliono bene e sono prontissimi a
comprenderlo, purché si comporti con un minimo di buonsenso. L’unica cosa che
venga da dire, di fronte al suicidio di Werther, è: Ma perché, santo cielo?!
Per Jacopo Ortis… è già tutta
un’altra storia. Intanto, non è un giovanotto in villeggiatura, ma un patriota
in esilio, che si sente seppellito vivo. Poi, quando s’innamora, lo fa d’una
donna ben più assennata e colta di Lotte e che vive un dramma sentimentale più
sostanziale. La famiglia di Teresa (la bella della situazione) si è infatti
sfasciata, quando suo padre ha voluto per forza promettere la ragazza in sposa
a un tale (ricchissimo e snob) Odoardo. Unica definizione possibile per costui:
manichino. Va da sé che Teresa è
troppo intelligente per sognarsi d’amarlo e lui è troppo fossile per vederla
più che come una moglie conveniente. Quando
Ortis arriva e mette un po’ di pepe in questo teatro, Teresa lo ricambia di
santa ragione e il di lei padre fa cambiare cortesemente aria al giovanotto.
Tirannide nella vita pubblica e tirannide nella vita privata, insomma. Non
certo una bella posizione, per il povero Jacopo. Gli resta la consolatio philosophiae, che pratica
estesamente nelle celeberrime lettere. Però, quando arriva l’autopugnalamento
finale, stavolta, nessuno può dire che la mossa sia sproporzionata alla
situazione. Né è lecito accusare la sventurata Teresa di civetteria o
indecisione.
Certo, se Werther era un
nullafacente pieno di stile, Ortis ha un ego leggermente gigantesco. E ha un
debole per i superuomini: legge continuamente le Vite parallele di Plutarco e visita quei sepolcri illustri che facevano la delizia del suo padre letterario.
Sospira sui versi di Dante e di Petrarca –laddove Werther preferiva Omero e
Ossian. Il patriota si vede anche dalla biblioteca.
Sorvolo sulle questioni più piccanti
–insomma, Werther, con Lotte, rimane un fanciullone ingenuo, mentre Ortis si
dimostra creatura di un esperto mandrillo. Davanti alle sue descrizioni di
Teresa, più volte, si arrossisce sul serio –ma con bon ton.
In conclusione, alla domanda “Qual è il
migliore?”, lascio cadere la risposta. Piuttosto, trovo che i due beneamati
romanzi epistolari mostrino due modi in cui un autore può “scrivere col
sangue”. La prima è riversare in un personaggio i propri bollori giovanili (a
rischio e pericolo!); oppure, concentrare in una piccola mole cartacea una vita
di pensieri, viaggi, amori, lotte. In nessun caso, autore e lettore escono
indenni dall’operazione. Decidere di che morte morire –anche solo nella
finzione letteraria – è sempre un’ardua
sentenza.
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