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Consigli per l'uso


Dal Novecento, quasi nessuna branca della scrittura è uscita illesa. Le parole sono state sezionate, scomposte, ricomposte. I futuristi ne hanno fatto immagini. Raymond Queneau le ha modulate in esercizi di stile. Italo Calvino ha giocato con la loro levità, le ha accostate ai tarocchi per bidimensionalità polisemica. Umberto Eco ha ricostruito il cosmo della biblioteca, in cui i libri si parlano e si riecheggiano, in un labirintico gioco di specchi. Un gioco per definire il quale si adopera quell’espressione irresoluta così poco cara a Cesare Segre: “postmodernismo”.

Eppure, sembra che una scialuppa si sia salvata da questo (non malauguratissimo) naufragio. La scrittura giornalistica continua a serbare la fede in un nesso parola-realtà, in un “discorso vero” platonicamente inteso. Con buona pace di Immanuel Kant e del suo noumeno inesperibile.

Questo credo ha i suoi più ferventi seguaci nei lettori. Possono essere scettici a parole (“le solite bugie dei giornali!”), ma il loro subconscio non può fare a meno di vedere, in quelle colonne, i fatti. È sufficiente una prosa nitida e dettagliata per fare la magia. Davanti a nulla l’uomo è così indifeso come di fronte alla parola.

Tuttavia, basterebbe poco. Stropicciarsi gli occhi, riaprirli e guardare i resti del trucco: un pezzo di carta con ghirigori d’inchiostro. Subito, nella nostra mente, si affollano argomenti a difendere quella fragilità: “Se l’hanno scritto, ci sarà un motivo!”; “Avranno ben verificato le fonti!” E così via. Diciamolo: anche oggi, a noi “moderni emancipati”, fa piacere aver qualcosa a cui credere fiduciosamente. Morto un Dio, se ne fa un altro.

Ma non chiedete a noi –per carità!- di essere dei. Noi cerchiamo di fare il nostro mestiere. Non è parola d’angeli –per parafrasare Vittorio Sereni- ma è la nostra sola parola e vi basti.

Sarebbe bene guardare a un giornale nella sua nuda sostanza: un prodotto scritto. Allora, si arriverebbe a soppesarne lo stile, il lessico, le idee. Si entrerebbe nella sua pelle. Se ne riconoscerebbe il sapore.

Per esempio, davanti a un’edicola, ho imparato a fiutare aromi diversi e familiari: quello terso e complesso del Corriere della Sera; quello peperino de Il Fatto Quotidiano; quello compassato del Sole 24 Ore; quello pungente e seduttore de La Repubblica.

Leggiamo i giornali. Ma leggiamoli con un occhio fuori dalla finestra, per ricordarci che i fatti sono là fuori, chissà dove –e che a noi restano i tasselli pazienti che qualcuno ha raccolto, in una costellazione di cornici.

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