Sarebbe
bene stringere uno e più fasci di nervi, come se fossimo stati dati alla luce
da una durevolezza esterna, per la quale si avanza morbosamente e in
alternativa si aleggia, bestemmiando nella speranza di nutrirci
dell’essenziale.
Messere inquadra un’euforia segnata dallo sconforto come dalla liquidazione di una
libertà non affatto introvabile nei percorsi che tracciamo; incuriositi d’anime
trascinanti, che ci consigliano di distinguere la sostanza dalla forma per ogni
bene primario, consumato da criminali perdonabilissimi, che preparano in
complicità con le loro prede un pasto rappacificante.
“Siamo decadenti: sempre e poi sempre
insaziabili
(…)
ove è la vita sterminato biliardo”.
Succede
allora di assistere lungi dall’identificarsi allo scorrimento altrettanto non
evidente di entità, esseri disperati, dotti, folli, combattenti, malati,
vittime estremizzate e dittatori, tutti uguali dacché irriconoscibili!
Sergio
armonizza la parola rievocando una stagione come quella autunnale, arrotondando
a suo modo d’immaginare per sempre ciò che l’umano si riserva; per una forma di
detenzione scioglibile con la novità esprimibile da un nostro simile, purché
umile e solidale volendo masticare la vita e quindi sacrificarci prontamente
per l’estraneità pulsante, come se capaci di attrarre e basta.
“vita mia, sei stata la nota più
squillante in uno spartito mai suonato”.
Effettivamente
l’osservazione dell’Io si estende su un vetro di riflesso spiazzante, e se ne
accresce il dolore tra il cuore e l’idea di ascoltarlo, almeno per chi come
Messere, che si muove cogliendo in sé desolazione, invocando il divino per i
poveri, a ricostituire, irremovibile, la naturale sortita.
Il
mondo fa venire i brividi ai sentimenti che s’imbestialiscono, fedeli alle loro
origini tanto da rinchiudercisi, per una chiara esasperazione, agevolante
l’alimentazione e l’animazione di ogni cosa (soffermatevi pure sulle
raffigurazioni di Pietro Tavani all’inizio dei capitoli).
Per
il poeta, fibrilla una clessidra, come a dover numerare l’infinitesimale, quasi
a offendere degli esserini, innocentemente incapaci ancora di tendere la mano
come lo sguardo, di una delicatezza inconciliabile.
“l’ozio fiuta l’inganno e non ne vuol
sapere
(…)
Bimbo dai pugni chiusi e dalle palpebre
di seta
(…)
La tua voce (…) lenta e incessante
emorragia dell’anima
(…)
Voglio vedere un questuante saltellare
(…) nuvole di desideri volteggiare”.
Successivamente
il nostro rimarca quel dono reintegrativo, elevato al femminile, di una Lei che
ha sofferto, però fatto salvo il candore; proporzionale all’intervento
anch’esso imprevisto, elevato al maschile, eseguito in modo rinsaldante,
affettuoso.
“La mia mano ruvida sulla tua fronte”.
L’ascolto
consiste in un percorso interiore, languido, di una rigidezza da sciogliere, a
fronte dell’annunciazione in grande stile se non addirittura insensibile degli
strumenti che ricominciano a rendersi efficaci.
Un
sentimento convincente dà luogo a nessuna condanna, in particolare a quella del
rosicare… piuttosto agevola l’indipendenza, quella buona per ritornare prima o
poi a confortare, con un vissuto duro, quando dall’altra parte si è in stato
febbrile.
C’è
spazio pure per i ricordi, quando si era bambini e ci accartocciavamo fuori
dalle lezioni, giocando indiscutibilmente in mezzo a una natura chiusa e
decadente, con un filo di sguardo da garantire alle pretese ormonali.
Ma
oggi soffriamo della mediocrità altezzosa, carta straccia in preparazione
dell’Io; come se sicuri di limitare un elemento sovrumano, emarginando così
soggetti insipidi, in fondo capaci di starsene isolati, a costituire il chiaro
desiderio di rivalsa sull’oggi alquanto irrefrenabile, potendo far battere il
cuore per istinto animale, senza perdere di mordente, con umiltà.
“È il dominio degenere del surgere
ansimante di fantocci di possibilità”.
La
più grande delle falsità si determina con l’imbarazzante insieme di principi
circa il buonsenso, mentre dell’autorevolezza s’espande uscendo dal proprio
essere spontaneo… da qui al bisogno di precisare una condizione vitale al calar
del buio quotidiano il passaggio pare unico, obbligato.
È
come stare dentro a una chiesa incantevole benché intima, aldilà degli effetti
salutari, con l’ispirazione a levarsi fuori ancora per la prima volta,
immortale, per bagnare di luce possibilmente un viso di persona che si confessi
a pelle.
Affermazioni
irrilevanti, miste agli attimi d’approfondimento e al pomeridiano infinito,
comportavano la maturità per chi come Messere, che aspetta d’essere smossa nel
bene come nel male, umanamente… poeticamente.
CATTEDRALE
Nulla
ti porta a danzare
all’estremo
come quando si è soli con se stessi.
Un silenzio incessante,
imponente,
che è musica.
All’interno di una cattedrale,
la propria.
O stai bene o stai male.
Tecnicamente,
generalmente lo stile di Messere è malinconico.
Egli
mostra d’essere cosciente della necessità di adattare il verso alla situazione
vissuta o immaginata; dunque è aulico nei temi che tocca più che nei termini
che impiega.
La
sua esperienza individuale diventa certamente universale, tra scorrevolezza, intima
direzione ed essenzialità.
Figure
e atmosfere di attendibilità sociologica o di rappresentatività antropologica
assumono un’intensità visionaria ma anche realista.
I
profili, tracciati con familiarità e imprendibilità, affascinano per l’estremo,
lo straziante e il passionale.
La
simbiosi con i lavori ad arte di Tavani da primo impatto “possibilista”,
orbene, è di un’apologia morale, meccanica.
Le
citazioni, ma soprattutto i riferimenti musicali classicheggiano velatamente,
alla fine di alcune singole poesie.
Fisicità
e sacralità sono intrise di parole spesso e volentieri lapidarie, perciò
efficaci e dirette, a evitare inutili percorsi verbosi dilatanti le sensazioni
fino all’annientamento.
Lieve
come il vento o evocativa come un’opera d’arte, la poetica interessa
strutturandosi quasi in maniera ipnotica.
Parole
allora persino potenti e dure, se nella loro radice di fedeltà e nell’ansia di
bellezza e giustizia.
Implicazioni
di simbolica forza cercano di accendere la luce sul senso del destino… di
parole che in fondo passano e legano, di un autore che sa bene del suo onore.
Vincenzo Calò
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