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Fare lo spiedo: una cucina per gli dèi?


La bella stagione (si spera) è finalmente arrivata e cominciano le consuete sagre paesane, con tanto di spiedo. Parrebbe una religione… Già. 
fare lo spiedo bresciano

Secondo il sito del “Museo dello Spiedo”, patrocinato da una nota azienda produttrice di girarrosti a Prevalle (BS), tale piatto ha avuto origine addirittura 1,5 milioni di anni fa: dall’abitudine di cuocere sul fuoco la selvaggina di piccolo taglio, infilzata su bastoncini. Sul medesimo sito, la preparazione dello spiedo viene apertamente definita “Rituale”.
La pensavano così anche gli antichi Romani. Il prof. Alberto Jori, nel saggio La cultura alimentare e l’arte gastronomica dei Romani (Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze Lettere e Arti, Quaderni dell’Accademia 5, Mantova 2016), così annota: “…i Romani si cibavano prevalentemente di carne bollita. […] invece lo spiedo era utilizzato in modo pressoché esclusivo nei pasti rituali connessi ai sacrifici.” (p. 76). Le are, infatti, non erano mai sprovviste di bracieri, sui quali erano consumate le offerte agli dei. A livello “pop”, ne parla Alberto Angela, nel suo Una giornata nell’antica Roma (Milano 2008, Mondadori): a p. 102, sono descritti proprio i resti di un rito, con tanto di tizzoni che vanno spegnendosi sull’altare.


Jacqueline Champeaux (La religione dei romani, Bologna 2002, Il Mulino) parla di “sapiente «cucina sacrificale» che richiede tempi lunghi e deve essere preparata sul fuoco dell’ara” (pp. 88-89). La sua funzione era arrostire le carni della vittima per la consumazione da parte dei sacerdoti (nelle celebrazioni pubbliche) o dall’offerente con gli invitati (nelle occasioni private). I visceri dell’animale appartenevano alla divinità: venivano consultati per conoscerne il volere, in particolar modo se gradisse o meno il sacrificio.
Perché era così importante l’aspetto “mangereccio”, nella religione romana? È incomprensibile agli odierni ed era contestato anche da alcuni pagani antichi (i pitagorici, in particolare, erano vegetariani e avevano orrore dei riti cruenti). Ma, per i Romani, il divino non era qualcosa di trascendente o disincarnato: era una forza vitale che, come tutto ciò che è vivo, necessitava di alimenti. In particolar modo, aveva bisogno di sangue, veicolo delle sostanze nutritive. Oltretutto, tramite il pasto comune, i fedeli si sentivano in comunione con la divinità, rafforzando al contempo i legami fra loro.
Fra le numerose feste religiose, ricordiamo gli Ambarvalia di fine maggio: così denominati dal fatto che si svolgevano attorno (ambo) al campo arativo (arvum). Erano dedicati a Marte (in seguito a Cerere) e intendevano purificare le messi e proteggere il raccolto - cosa che faranno poi le rogazioni cristiane. Prevedevano il sacrificio di ben tre vittime: un maiale, una pecora e un toro, condotti dapprima in processione intorno alla città. Né si pensi che fosse “solennità sprecata”: dalla fertilità della terra sarebbe dipesa la sopravvivenza di tutti, durante l’anno. 
spiedo bresciano

Noi bresciani odierni non dobbiamo temere l’incubo della fame e nemmeno penseremmo di rafforzare un dio col nostro “spiedo e polenta”. Eppure, se nessuno pensasse a organizzare sagre con tanto di luculliana cena cotta sul fuoco, ci preoccuperemmo. E a ragione: significherebbe che a nessuno importa più radunarsi per godere un po’ d’allegria e abbondanza. Significherebbe sentir strisciare un certo senso di freddezza. Diciamo pure di morte.

Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 143 (giugno 2019), p. 18.


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