Massimo Pamio è saggista e poeta; dirige il Museo della Lettera d’Amore; è Cavaliere della Repubblica per meriti culturali, nonché direttore editoriale delle Edizioni Mondo Nuovo. Non c’è da stupirsi se la sua poesia ha un forte spessore filosofico, ben lontano dall’effusione sentimentale alla quale i versi sono popolarmente associati. È il caso - fra le sue numerose opere - di Anonimie - Poesie 2010-2020.
Perché un titolo così singolare?
Perché nessuno dei componimenti sembrerebbe ricollegabile a un nome, a una
soggettività storica e incarnata. Essi, piuttosto, si riferiscono a figure
emblematiche - come il Cantimbanco cui
è dedicata una Teomantica. Teomantica del cantimbanco è il
titolo di una delle prime liriche che incontriamo nella raccolta. Entrambi sono
termini coniati appositamente, ma il cui significato è riconoscibile a chi
abbia consistenti conoscenze lessicali. La “teomantica” unisce il dio (teo-) all’arte della divinazione (-mantica). È dunque ispirazione divina,
che fa vedere in profondità. “Cantimbanco” è chiaramente un calco di “saltimbanco”:
il cantore, ovvero il poeta, fa mostra di non prendersi troppo sul serio - a mo’
di Aldo Palazzeschi, che si definiva “il saltimbanco dell’anima mia”? Di certo,
anche i versi di Pamio son pregni d’ironia:
Per opere ed azioni in commissioni,
in gesti, fatturati, espropriazioni,
di conquistare il mondo non pretesi,
né mai contesi scranni o ascesi vette:
mi fu distante terra come il cielo.
Smarriti pellegrini non soccorsi,
né lacrime asciugai di sofferenti
nell’ammonir potenti ebbi difetto.
[…]
Al tempo dedicai ogni premura.
Collezionai clessidre, avendo cura
di rovesciarne il senso, la misura.
[…]
Il tempo che misuro con lentezza
l’impiego a sperperare in osterie
la gioia ch’è m’è data con larghezza.
Una
sorta di “santificazione alla rovescia”, questa del Cantimbanco pamiano. D’altronde,
già ai tempi di Baudelaire, il poeta aveva perso l’aureola e si dedicava a
godersi la vita come i comuni mortali. Questa sua versione contemporanea non fa
eccezione. Far tesoro del tempo significa per lui rifiutare quanto è vuoto
orgoglio (premi terreni così come celesti), per assaporare appieno la gioia che
gli è stata concessa nella breve vita. E chissà che questa non sia la più
divina delle ispirazioni…
Che ne è dunque di Orfeo,
ben diversa figura di poeta, cui è dedicato un altro componimento? È per
sempre assorto nello sguardo della sua Euridice, che ormai vede in ogni
elemento dell’universo:
Continuo a vedere il mondo e te
dissipata in ogni frammento te
dilaniata
nella pioggia a gocce
dilapidata nel fuoco a cenere
persa la tua voce nel fruscio del
vento
fronda tra le fronde, il tuo mallo
che non diventa mai noce
e secca nel mio cuore appassito,
mi tendo sì all’ascolto d’ogni
passo
e mi volto ma non è
quella la tua grazia, e continuo
a voltarmi e migliaia e migliaia
di volti che non sono i tuoi
scomparsi dal mio sguardo
che non riesce più a ricomporti.
Versi
strazianti che ci ricordano questo: l’amore può bensì tendere a essere
universale, a vedere ovunque e in ogni cosa il proprio oggetto… ma, per sua
natura, è rivolto all’individualità. Un’individualità che la morte disperde.
Dunque, se la poesia non conferisce
virtù e immortalità… a cosa serve?
A una rivolta.
Canto la rivolta trasognata
della parola, le parole stellate
di giustizia, contro la paura che
addomestica
più e più volte ripetuta
anamnestica,
canto il coraggio della parola NO
che si innalza contro tutto l’enor-
me canagliume e il loro inferno
contro il demonio dello schermo
canto l’acqua della parola che impetra
e non s’indigna non s’arma
canto l’annuncio del mare sulla spiaggia
spazzando buste, profilattici, raggi
bicchieri esche corde ami e reti
di tutte le gabbie del pianeta
dove l’uomo imprigiona se stesso.
Ecco
cos’è la poesia: la rottura delle gabbie
del pensiero. È invenzione di parole mai udite, altisonanti e oscure
magari, ma mai scontate. È il fluire di immagini che si accavallano in versi
liberissimi, seppur martellati dalle rime. Nessun’arte più di questa è in grado
di creare prospettive altre, proprio
perché non imprigionabile negli standard del “commerciabile”. Oggigiorno, apre
un libro di poesia chi cerca il buio
oltre la siepe. Chi volesse tentare la lettura delle Anonimie si troverebbe di fronte - dapprima - proprio a un muro di
tenebra e smarrimento. Poi, col progressivo abituarsi degli occhi della mente,
troverebbe man mano sagome sempre più definite, forse anche note. Si sorprenderebbe
a commuoversi, davanti allo specchio di un volto che credeva dimenticato. È così
che le Anonimie prendono nome,
diventano un po’ nostre.
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