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Joker: la risata di molte follie



«Ho sempre creduto che la mia vita fosse una tragedia. Ora, mi accorgo che è una c***o di commedia». Già: come sa il buon Aristotele, perché vi sia tragedia occorrono pietà e terrore. E Arthur Fleck, detto Joker (Joaquin Phoenix), è privo di entrambe. 
joker film 2019
Fonte: indiewire.com
            Joker (USA, 2019; regia di Todd Phillips) è il celebre film ispirato a uno dei supercattivi di Gotham City. Una volta tanto, quel pipistrellone palestrato e viziato di Batman è fuori dai piedi. È incredibile quanto possa diventare seria una storia, quando l’eroe viene rimosso.
Tolto l’improbabile superuomo, infatti, resta l’uomo: dolore, povertà, follia, cose drammaticamente reali.
            «Sono io che sto impazzendo o stanno impazzendo tutti gli altri?» È una delle prime battute che sentiamo pronunciare al protagonista, mentre parla con una psicologa messa a disposizione da un servizio pubblico.
Il punto è che le due cose non si escludono a vicenda. Lui va impazzendo per le conseguenze di una vita d’abusi, frustrazione, solitudine. E di indifferenza sociopolitica, bisogna aggiungere: il servizio pubblico che si prende (bene o male) cura di lui chiuderà per mancanza di fondi. Intorno ad Arthur, i cittadini di Gotham City impazziscono per la spazzatura non raccolta, i ratti infestanti, gli alloggi fatiscenti. I rapporti umani sono freddi, improntati a una felicità imposta. Anche per questo, Arthur ha sviluppato un disturbo: una risata soffocante, che lo coglie alla sprovvista e senza legami col suo effettivo stato d’animo.
Il suo sogno sarebbe piuttosto quello di far ridere gli altri; ma, in mancanza di talento, deve contentarsi di fare il clown. Durante un’esibizione davanti a bambini in ospedale, gli cade di tasca una pistola prestatagli (non si sa quanto in buona fede) da un collega. Questo gli costa l’amato e necessario lavoro. Dulcis in fundo, mentre è ancora vestito da pagliaccio, viene aggredito da tre giovani ricchi e arroganti. Con la fatale pistola, li uccide - e, così, comincia a scrivere il proprio destino.
Prima, la scoperta di non provare rimorso. Poi, quella di non essere l’unico pazzo dai sogni omicidi.
La morte dei tre bulletti viziati viene pubblicamente deplorata da Thomas Wayne (Brett Cullen), un miliardario candidato sindaco… e, sì, anche padre del futuro Batman. Wayne è l’idolo di Penny (Frances Conroy): la madre di Arthur, che lavorava come domestica di casa Wayne trent’anni prima. Eppure, il “salvatore di Gotham City” non ha che parole di disprezzo per i diseredati che si aspettano tanto da lui. Questo scatena proteste feroci, che solidarizzano col pagliaccio omicida. I manifestanti indossano anche maschere da clown. Dalle manifestazioni ai fatti, il passo è breve…
            Quello che colpisce in Joker, oltre alla claustrofobica angoscia, è l’assenza del senso della verità. La storia è infatti narrata dal punto di vista del protagonista, per il quale è impossibile distinguere la realtà da fantasticherie e allucinazioni. Persino il suo passato e la sua infanzia sono frutto delle bugie materne: non c’è radice in essi, nessun appiglio solido.
            Trasformandosi in Joker, Arthur ritiene d’aver trovato la propria vera natura e d’aver fatto pace con essa. Ma quell’identità è un’altra maschera, per di più grottesca. È compulsiva come la sua risata.
Arthur s’incasella nel jolly joker, la carta del “tutto e niente”, perché quello è l’unico posto lasciatogli da una società falsa e malata come lui. O, almeno, così può sembrare.
            La sua può anche essere una libera risposta all’altrui scelta di essere crudeli e anaffettivi. Wayne non era obbligato a insultare intere masse di disperati. Il comico preferito di Arthur non era obbligato a deridere pubblicamente lo sventurato clown per le sue scarse capacità di cabarettista. Le bande di ragazzini e gli zerbinotti annoiati non erano obbligati a pestare pagliacci di passaggio per divertimento. A Gotham City, la crudeltà è endemica e gratuita, un gioco senza allegria. Joker sceglie per sé una parte in questo gioco, usando la propria arte e facendolo (stavolta) da maestro. Non è capace di far ridere. Ma, a Gotham City, nessun divertimento fa ridere. Esiste solo la risata isterica della disperazione mascherata.
            È forse questa l’unica verità espressa nel film. Per il resto, il protagonista (impelagato nella propria psiche squadernata) non può trovare se stesso. Tantomeno lo può sua madre, preda di ossessioni e deformazioni narcisistiche della realtà. Non porta verità Thomas Wayne, padreterno senza alcunché di paterno. Men che meno la portano i molteplici “pagliacci” che infuriano nelle piazze: hanno frainteso del tutto il gesto omicida di Arthur, sviati dalla strumentalizzazione politica e dai propri rancori. Una cosa sola è certa: nessuno impazzisce da solo.

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