Il mio
penultimo incontro con militanti di estrema destra non è stato esattamente
qualcosa di equilibrato e fraterno. Pertanto, se non fosse stato per A., non
avrei mai avuto occasione di scrivere queste righe.
Io e A. ci
conoscemmo litigando su un social network. La mia prima reazione nei suoi
confronti fu d’esasperazione per la sua pedanteria e il suo… ehm, talento antidiplomatico.
Notai in lui, però, anche una cultura sterminata e profonda, che non poté fare
a meno di colpirmi –anche per via della giovane età di A. Il nostro rapporto si
ammorbidì più tardi, un po’ perché ci scoprimmo entrambi goliardi (quindi,
“fratelli”), un po’ perché A., dal vivo, è un pezzo di pane. La prima volta che
abbiamo avuto occasione di incontrarci di persona, gli sono saltata al collo e
mi sono tenuta avviticchiata al suo braccio per quasi tutta la mattinata. Il
mio attaccamento da “sorellina” era già bell’e maturo.
Quando ho
saputo che lui avrebbe tenuto l’introduzione d’un convegno non lontano da
Pavia, mi sono procurata in un lampo i biglietti del treno. A. vive e studia
abbastanza lungi dai miei paraggi, oltre a tenersi in contatto con la fidanzata
all’estero. Non avrei potuto perdermi un’occasione di salutarlo –almeno, ora
che il suo mordente di polemista, ai miei occhi, era ampiamente smussato dalla
sua carezzevole ironia e dal suo arrossimento facile.
L’ho
raggiunto nella sede dell’ateneo dove il convegno si sarebbe tenuto. Mi ha
presentato i due ragazzi che erano con loro: un altro relatore e un redattore
del blog Campari e De Maistre. Come di rito, abbiamo preso un caffè al bar dell’università. Uno della
compagnia si è prontamente diretto alla cassa per lo scontrino: «Lasciate
stare, ho trovato 5 euro per terra…» Per un attimo, ha fatto capolino il
fantasma di Renzo Tramaglino: “Eccolo, il caffè della Provvidenza!”
C’era
ancora un bel po’ di tempo da sfilacciare, prima del convegno. A. combatteva
contro il sonno. Aveva avuto notizia della data dell’evento non più di quattro
giorni prima e aveva preparato il proprio intervento praticamente di notte. Si
trattava di “qualche appunto sul PC, arrangiato in tempi stretti e su temi
lontani dal suo campo di studi” (si sarebbero rivelati 45 minuti di cenni
storici fittissimi. Vatti a fidare dei secchioni…). La compagnia ha deciso di
andare a trascorrere l’attesa in un’aula che, per A. e gli altri due ragazzi,
doveva essere “casa, dolce casa”, ma che, per me, era la Luna.
In uno
spazio non certo generoso, cercavano di stiparsi tutti i simboli e le bandiere
possibili e immaginabili: croci d’ogni foggia e dimensione, spade, manifesti
neofuturistici, eroi dei fumetti in reinterpretazioni “postmoderne”, fotografie
in bianco e nero, rimembranze di vittime di odio politico, guizzi di Romanticismo tedesco. L’unico logo a darmi
un appiglio a una realtà conosciuta è stato quello di Azione Universitaria.
«C’è qualunque cosa, qui… E chi li sa interpretare tutti, questi simboli?» ha
constatato A., con pacata rinuncia. Eravamo in circa dieci persone là dentro:
un numero in aumento costante. Situazione abbastanza comune, peraltro, nelle
sedi di associazioni studentesche. Due ragazze scrivevano al computer; un
giovanotto dall’aria curatissima e démodée
mi ha sorriso. Più tardi, si sono aggiunti, fra gli altri, un uomo alto e
magrissimo e un ragazzo ben piantato, con pantaloni mimetici e bicipiti
sorridenti. A. e uno degli amici parlavano delle proprie disavventure sul web.
«Mi ha detto: “Vengo a spaccarti la testa, fascista di m***a!”» raccontava uno
di loro. «Mentre gli stavo rispondendo, mi ha cancellato dai contatti
Facebook».
Nel
frattempo, sono venuta a sapere che l’uomo magro era uno dei fondatori di
un sito e di un gruppo editoriale di cui fa parte anche il fidanzato di
una mia amica. Un’amica di data abbastanza vecchia che, ultimamente, non ho più
modo di incontrare. Ho chiesto di lei all’uomo, affidandogli anche i miei
saluti per lei. Probabilmente, saluti gettati al vento, dato che, la sera, un
suo SMS mi ha precisato che lei ha chiuso i contatti con me per l’
“incompatibilità dei nostri modi di vedere”. Un riferimento alla mia adesione
ad Arcigay Pavia.
Davanti al
mio evidente smarrimento in quel caleidoscopio di simboli, l’uomo mi ha fornito
una chiosa eloquente: «Qui, si radunano tutti quelli che non si riconoscono
nelle tendenze prevalenti... Tutti i “matti del villaggio”» ha riassunto, con
serena ironia. Ciò spiegava la loro ospitalità nei miei confronti. Sebbene
nessuno di quei loghi fosse mio, di certo “matta” ero e sono. La mia dichiarata
fedeltà all’Unione Degli Universitari non ha impedito all’uomo di ringraziarmi
per la presenza al convegno (della quale avrebbe dovuto essere ringraziato A.,
a rigore). Da quel pomeriggio, ho raccolto un altro tassello dei paradossi
della vita: mentre vecchie amicizie rompono i contatti con me per “le mie
idee”, persone fra le quali non mi sentirò mai “a casa” mi aprono il proprio
prezioso angolo senza avermi mai visto prima. L’ “insostenibile tolleranza”
degli “estremisti”.
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