«Allora,
voi siete nuove, giusto?»
E
il presidente del seggio spiega qualche rudimento a me e a una giovane signora,
per la prima volta sorteggiate come scrutatrici: lei dopo sette anni di attesa,
io praticamente al primo colpo. La Fortuna
[…] de’ pazzi ha cura.
«La riconsegna delle matite - mi
raccomando! - è una delle cose di cui siamo legalmente responsabili… Poi,
naturalmente, non bisogna far sparire le schede, o scarabocchiarle… tutte cose
che chi ha buonsenso non fa comunque». E io che già contavo di scrivere Viva la fOca su tutte le schede…
L’urna,
per ora, langue. I suoi angoli sono segnati da scotch bianco - visto che quel
cubo di cartone dovrà essere inviolabile come l’Arca dell’Alleanza. Domando al
presidente cosa bisogni farne. Lui mi spiega. Così, comincio a fare la toeletta
al Sacro Scatolone, a suon di timbri e firme sugli spigoli sigillati. Anche
nelle cabine elettorali bisogna guardare, per essere sicuri che nessuno sia
passato a lasciarvi materiale propagandistico, per il “SI” o per il “NO”. O per
Viva la fOca, magari.
Un trattamento drastico toccherà
anche a tutte le finestre-porte-pertugi della sala convegni dell’ospedale. Una
bella croce di scotch e le nostre firme sopra. Tu non puoi passare. Siamo stati qui.
Il mattino dopo,
più che di andare a compiere un dovere civico, mi par d’essere all’inizio di un
romanzo losco. È ancora buio; per le strade non c’è anima viva, se non io in
abiti neri, che sgattaiolo in gran fretta. Ho dimenticato la sciarpa viola in
testa e lo smalto sulle unghie, maledizione.
In compenso, c’è il tocco di classe: il rossetto nero.
Per entrare più in fretta nel
complesso dell’ospedale, infilo un’entrata secondaria e mi perdo subito. Nel
bosco di scale antincendio, posso scegliere se attraversare un prato, o
scendere sotto l’ombra di un portico retto da pilastri - luogo ideale per l’appuntamento
con uno stupratore. Nessuna delle opzioni si rivela risolutrice. Sospiro, esco
dall’ospedale e ritrovo un’altra entrata secondaria - quella che avevo impiegato
il pomeriggio prima, per l’inizio delle operazioni elettorali. Maledetta la mia
fretta, che mi rallenta sempre tutto.
Arrivo comunque in tempo. Davanti
alla porta scotchata della sala convegni, ci sono altri due “colleghi”, che
chiacchierano con uno dei Carabinieri. «Questo, finora, è stato il seggio
migliore, dal punto di vista logistico» sta dicendo lui, con sollievo. «Un
letto… bagno in camera… acqua calda… televisore!»
Lascio immaginare a cosa possa essere abituato, in quel tipo di situazione.
Quando siamo tutti presenti e scatta
l’ora X, strappiamo senza pietà i sigilli dall’uscio ed entriamo a occupare il
seggio. Il cartellone con l’annuncio dei comizi elettorali si è accasciato per
l’ennesima volta. Sigh.
Il nastro adesivo sulle finestre e sulla
porta antipanico è intatto. Adesso, urge caffè. Me lo offre una delle “colleghe”,
al bar dell’ospedale («Tu ricambierai dopo!». Sì, speraci). Aggiunge anche un
boero vinto con una pesca al bancone. La invito a un brindisi con quei
cioccolatini alcolici. Torniamo in sezione con un quotidiano ciascuna. Si
prevedono abbrutimenti progressivi nel livello delle letture, durante la
giornata.
Il seggio dell’ospedale si rivela
per quel che ci aspettavamo: un deserto di noia. Quando compare il primo
votante, in vestaglia d’ordinanza, il nostro spirito lancia un grido d’arrembaggio:
“Mio! Mio! Mio!”
Traffichiamo con i registri,
rigorosamente distinti in “maschile” e “femminile”. Mi viene in mente la prima
esperienza elettorale di Monica Romano. E, per la prima volta nella giornata, non ho voglia di sorridere.
Gli intervalli tra un votante e l’altro
sono scanditi con passatempi sempre più di sopravvivenza. Esauriamo il book
fotografico dedicato al cane di casa, sul cellulare di una scrutatrice.
Parliamo delle signore ingioiellate e altezzose in via Montenapoleone a Milano,
così simili al personaggio di una commedia in cui reciterò. L’argomento ci
ispira la “dieta shopping”: ovvero, recarsi a fare compere nella suddetta via,
per poi non aver di che mangiare nel resto del mese. Dovrebbe funzionare a meraviglia.
Dopo questa pensata, mettiamo a
punto la distinzione fra “comandare” e “far quel che ci pare”, ispirata a una
battuta di Amici miei - Atto II sui
rapporti fra marito e moglie.
Segue una lunga e appassionata
conversazione su fini questioni antropologiche: il mancato senso delle calorie
nelle cucine meridionali (perché? Lo spiedo bresciano è dietetico, forse?), i
molteplici inviti alle bevute di caffè, le visite a casa con o senza telefonata
preventiva, i rapporti sociali che vanno crollando causa Whatsapp e mancanza di
tempo.
La pausa pranzo al bar dell’ospedale
mi causa un conflitto interiore fra panino speck-robiola e insalatona. Decido
per l’insalatona, augurandomi che i grissini allegati non si sbriciolino
troppo.
Nel pomeriggio, la confusione fra “autorizzazione”
e “dichiarazione” causa un grattacapo a una signora, ricoverata in Ginecologia “fuori
sede” e che ha ricevuto informazioni scorrette su come votare fuori dal proprio
Comune. La facciamo attendere, finché non arriva il documento giusto.
Sbagliando (per opera altrui), s’impara (a danno proprio).
Uno dei miei “colleghi” mi avverte
che ci sono distributori di cibo e bevande, al secondo piano. Vado a scegliermi
un piccolo cartone di latte di soia aromatizzato al cioccolato, che mi scolo
con gran letizia.
Durante la pausa cena di due scrutatrici,
propongo di svagarci con un po’ della musica che ho salvato sullo smartphone.
Il presidente mi avverte: «Non dovremmo portare qui apparecchi audiovisivi…»
Allora, rinuncio. Cosa che non m’impedisce di canticchiare Paint It Black dei Rolling Stones nelle ore seguenti. Chissà che
razza di condizionamento elettorale potrebbe essere. Prima che sia il mio turno
per la pausa cena, il motivetto ha contagiato anche qualcun altro dei presenti.
Dato che il bar dell’ospedale è
ormai chiuso, per mangiare un boccone mi reco a uno dei miei locali preferiti,
il pub nelle vicinanze. Qui, mando a quel paese la virtù e ordino un panino con
mezza pinta di Martin’s. Fra il rock in sottofondo e le luci ovattate, i miei
vicini di tavolo parlano del referendum. Pure
qui, porca miseria.
Quando mi congedo dal gestore, pesco
fra i “libri liberi” del locale Il marito
in collegio di Giovannino Guareschi. Lo prosciugo nelle ultime ore di
votazioni, evitando che siano le peggiori a livello di scorticamento dei nervi.
Non fare nulla è una fatica immane, diceva
Oscar Wilde.
Fra le votanti di fine giornata, ci
sono due giovani signore che hanno da poco partorito. Auspico un futuro
matrimonio fra i loro contemporanei virgulti, ma una di loro ha già deciso che
non vuole una nuora tanto rumorosa.
La chiusura delle votazioni,
naturalmente, non è una festa. Non siamo tanto sciocchi da esultare proprio ora
che si deve lavorare sul serio. Diligentemente, il presidente legge i risultati
delle schede. Io e un altro le segniamo su due copie del verbale dei risultati.
Dobbiamo avvertire ogni volta che i numeri di “SI” o di “NO” raggiungono una
cifra tonda. Chissà se c’è un premio per la cinquina.
L’operazione è rapida e indolore.
Arriva l’imbustamento di tutti i materiali - e non si può dirne altrettanto. Alla
fine, comunque, noi scrutatori abbandoniamo con gioia i plichi alle cure di
presidente e vicepresidente, guadagnando l’uscita. I saluti sono frizzanti e
cordiali, come dopo una festa o una gita. È
stato un piacere.
Commenti
Posta un commento
Si avvisano i gentili lettori che (come è ovvio) non verranno approvati commenti scurrili, offese dirette, incitazioni all'odio di qualunque tipo, messaggi che violino la privacy o ledano l'onore di terzi. Si prega di considerare questo blog come uno spazio di confronto, così come è stato fatto finora, e non come uno "sfogatoio". Ci scusiamo per eventuali ritardi nella pubblicazione dei commenti: cause (tecnologiche) di forza maggiore. Grazie.