Parte II: Il
cielo in fiamme
2.
Diana
si schiarì la voce, mentre Agostino cominciava a pizzicare le corde del basso.
Gennaro si era già piazzato dietro la tastiera e Giorgio accarezzava i piatti
metallici della batteria con le bacchette. Poco discosto, si era già seduto il
trio: Michele, col piffero appenninico; Francesco, con la “musa delle Quattro
Province” e Luca, con la fisarmonica. Edoardo aveva già impugnato la chitarra
elettrica e fissava Diana, alla ricerca di un segnale dai suoi occhi oscuri.
Si respirava l’aria di ogni inizio,
quando ciascuno sfiorava i propri strumenti, generando qualcosa che si librava
in attesa, indefinito, nell’imminenza di diventare musica. Come sempre, i “Pains
of Odin” si erano radunati nel garage della madre di Agostino, ampio a
sufficienza per non farli diventare tutti sordi sul breve periodo, e
pazientemente insonorizzato.
Cinque di loro si erano decisi a quell’esperimento
dopo intense esperienze in gruppi metal amatoriali, negli anni di liceo.
Michele, Francesco e Luca provenivano da un retroterra leggermente diverso:
quello del folklore e delle feste di paese, rispettivamente nelle province di
Pavia, di Genova e di Piacenza. Loro aggiungevano il tocco arcaico
miracolosamente sopravvissuto sugli Appennini, come una perla nascosta ai
ladri. Insieme a Gennaro, che veniva da Castellammare di Stabia, al bresciano
Giorgio e al piemontese Edoardo, i “Pains of Odin” erano una rappresentanza
abbastanza credibile della popolazione studentesca.
Avevano
lasciato trascorrere diversi esami universitari, prima di sentirsi pronti a
proporre qualcosa di originale. Ormai, le canzoni non erano più cover, ma versi
di Diana: in italiano, in dialetto pavese o in inglese. Lei pescava a piene
mani dalle proprie letture, dalla storia locale, dalle dicerie più suggestive
sul passato della città.
Al fianco della ragazza, c’era
principalmente il chitarrista. Edoardo aveva un anno meno di lei e grandi occhi
celesti, nel viso incorniciato dalla barba bionda e da chiome lisce che
lasciava crescere, per imitare i propri idoli musicali. Aveva una voce ottima
per i growl e, spesso, faceva da
contrappunto ai toni da contralto dell’amica. Quando suonavano e cantavano
insieme, si aveva l’impressione di assistere a un arcano inseguimento: un fauno
dietro una ninfa, per sempre irraggiungibile e per sempre bella, come quella
sull’urna greca di John Keats. Si
parlavano senza dire. Edoardo si straziava nelle confessioni appassionate e
lei rispondeva di no, di no, con la calma ineluttabilità di una forza maggiore.
Forse, era principalmente quel conflitto subliminale ad attirare tanti
adolescenti ai loro concerti, non certo pensati per arruffianarsi il pubblico
dei giovanissimi.
«Proviamo per prima Death of Denethor, va bene?» propose
Diana. La chitarra acconsentì con un accordo deciso.
[Continua]
Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (22 dicembre 2016).
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