Passa ai contenuti principali

Il rock si fa vivo

Il bello del rock è il suo essere musica viva, che coinvolge il pubblico quasi fisicamente. Così la pensano gli Everlong, quattro ragazzi della provincia di Brescia che suonano insieme dall’inizio del 2016, dopo precedenti esperienze. Sono i fratelli Ricca, Cristiano (chitarra, voce, testi) e Alessio (batteria), poi Giacomo Ferrari (chitarra) ed Emilio Dolzanelli (basso). Nella loro musica, confluiscono diversi gusti: rock ‘n roll soprattutto, ma anche blues, swing, funky, country. Suonano cover delle canzoni preferite, ma offrono anche pezzi di loro composizione. 

            A Manerbio, sono approdati il 22 ottobre 2016, al Bridge Pub & Restaurant, per dar vita al “Rock & Roll Live Show”. Il clima caldo e informale ha incorniciato un’esibizione “a cuore aperto”, aperta proprio da due brani inediti degli Everlong: “Baby” e “While She’s Dancing”. Una ballata nata da diverse fatiche e discussioni in sala prove era, invece, “Don’t Look Behind”. Sempre opera loro era “Funky”, poi un “blues” con armonica a bocca, per finire con “Do It Every Day” e “All Night Long”. Le cover ricalcavano invece classici come Amy Winehouse (“Valerie”, 2006), i Beatles (“Don’t Let Me Down”, 1981; “Twist And Shout”, 1963) e i Rolling Stones (“Beast of Burden”, 1978). Quella fra gli ultimi due gruppi è una diatriba non solo fra gli appassionati del genere, ma anche fra i membri della band. Non tutte le divergenze vengono per nuocere, si potrebbe dire.
 Nel repertorio, erano presenti anche Bruno Mars (“Treasure”, 2012) e un notissimo brano gospel di Ben E. King, “Stand By Me” (1962). “Have You Ever Seen The Rain” (1970) rappresentava i Creedence Clearwater Revival nel campionario. Verso la metà della serata, Cristiano ha proposto un proprio assolo, tratto da “Dancing in the Dark” (1984) di Bruce Springsteen.

            Tra birre e battute, bis e applausi, la musica sembra un gioco. Un gioco bello che può durare anche a lungo… o “everlong”.

Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.   Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: i