Quando
si parla di “pregiudizi”, si pensa al classico paesello di comari
spettegolanti, incapaci di rinunciare alle idee cui sono affezionate da sempre.
Ma ad abbattere quel genere di pregiudizi ci vuol poco, se si ha meno di
trent’anni, si hanno interessi culturali e si vive nell’era del villaggio
globale.
Ben più difficile è liberarsi dai
preconcetti elaborati durante gli studi universitari: la convinzione di essere
destinati a un futuro eletto, di vedere più lontano rispetto a quei “bifolchi”
che ci hanno cresciuto… di avere qualcosa da insegnare al “volgo profano”. I
libri, i professori e gli amici fanno spesso di tutto per costruire intorno a
questi pregiudizi una cattedrale difensiva: parole, parole e ancora parole,
inanellate fra loro in modo da sembrare indistruttibili. Come testimoniano le
leggende su Mago Merlino, le prigioni peggiori sono quelle d’aria.
Forse, la depressione post lauream e
il periodo d’inoccupazione forzata sono una forma di benedizione… gli dèi
provano coloro che amano. È quella la parentesi in cui si è obbligati a
tagliarsi la cresta e a confrontarsi con la realtà. I “bifolchi” diventano una
fonte di aiuto materiale e psicologico. Il “paesello” è il primo a offrire le
opportunità di mettersi in vista e guadagnare qualche soldo, facendo ciò che si
ama. E il mito della propria superiorità crolla, duramente, ma felicemente.
Una bella lezione per chi, come me,
ha vissuto l’ultimo anno di università come fosse il Nightmare Before Christmas.
La trama è piuttosto nota a tutti gli amanti di Tim Burton: Jack Skellington,
re di Halloween e artista carismatico, si sente stanco di se stesso e del
proprio mondo. La curiosità lo porta a scoprire un universo completamente
diverso: quello del Natale. Jack se ne innamora. E, pur di imitare quella
novità ammaliante, distorce il Natale e se stesso, fino alla catastrofe finale.
Nonostante ciò, quell’errore non è
inutile. Si rivela un passaggio necessario per liberarsi del male di vivere. Lo
shock fa morire e risorgere l’artista stanco. Torna alla vita di prima, ma non come prima. È divenuto consapevole della
propria specificità, del proprio ingenium:
ovvero, di ciò che è nato con lui.
Anche alla sottoscritta, giocare il
ruolo dell’intellettuale sofisticata e tutta d’un pezzo non ha fatto
completamente male. Ho sperimentato fino a che punto potevo negare i miei veri
sentimenti e la mia situazione sociale o familiare (un nucleo solido di piccoli
commercianti ed ex-contadini, in una città di piccole dimensioni). Casomai ce
ne fosse bisogno, ho capito che non potevo continuare a fuggirla per essere
ammirata dai miei amici laureati. Essi vantavano l’ “indipendenza”, la
scaltrezza, l’autoaffermazione, senza tener conto del fatto che dovevano ciò
che avevano anche a una buona dose di fortuna, o alla condiscendenza di coloro
che li amavano. Spesso, provenivano semplicemente da una famiglia allo stesso
tempo più abbiente e più assente della mia. (Il colmo della comicità
involontaria è stata sentirmi accusare di immobilismo da gente che non aveva
avuto bisogno di spostare le natiche nemmeno per andare all’università, che
aveva ogni genere di servizi sotto casa e che calcolava ogni viaggio come fosse
uno tratto in metropolitana. Gente del genere prova così tanto disprezzo o
paternalismo, verso chi non ha la pappa pronta come loro, da essere veramente
pericolosa per chi non abbia un’autostima d’acciaio).
Avevo trovato un mondo luccicante di
libri, nuove conoscenze, piaceri, in una fase della mia vita in cui la
precarietà futura mi spaventava… e mi spaventava, più di tutto, fare i conti
con ciò che mi ero lasciata “indietro”. La mia dolcezza, la mia tendenza a
coltivare gli affetti familiari, il mio desiderio d’imparare da chi aveva
vissuto più a lungo o aveva una posizione istituzionale. L’amore per le persone
semplici, che non s’imbarcavano in grandi discorsi, ma ascoltavano volentieri
ciò che avevo da raccontare. La religione con cui ero entrata in crisi più per
fattori esteriori che interiori, per le sollecitazioni opposte degli
integralisti e degli scettici. Non volevo più essere “Erica la buona”, “Erica
la brava ragazza”. Mi sentivo un mostro fuori posto nel mondo e volevo
coltivare questa condizione. Anche perché ero orgogliosa della mia diversità,
dell’essere arrabbiata contro tutto quello che era “piccoloborghese”. Le mie
dichiarazioni di guerra mi attiravano l’ammirazione di persone sensibili,
dotate, colte… superiori. A tale
fase, risale l’esternazione del mio spirito dark.
(Quella è rimasta, perché espressione di una sensibilità estetica
autentica, manifestatasi già col primo “romanzo” scritto a 9-10 anni.
Permanente è anche la mia adesione all’attivismo LGBT. Non sono d’accordo con
la commercializzazione della procreazione o l’identitarismo su base sessuale –
né lo sono mai stata. Trovo però che sia un notevole miglioramento, a livello
sociale, vedere le persone come me sottratte alla prostituzione o alla doppia
vita, per metter su casa e diventar persino buoni educatori. Se ciò richiede
alcune revisioni a livello di diritto civile, ben venga. Qualche pezzo di carta
è un prezzo da pochissimo, per il vantaggio che se ne trae.)
Il fallimento dei miei “piani di
fuga da me stessa” mi fece sbattere la faccia contro la realtà. Non ero
cambiata. Avevo solo imparato a valorizzare alcuni lati “ignoti” di me stessa e
a mettere in secondo piano gli altri. Avevo iper-nutrito quella pulsione all’autoaffermazione
di cui ogni essere umano è portatore più o meno sano.
Anche
se potrebbe sembrare propagandistico, è un dato di fatto che io debba l’uscita
da quella trappola psichica alla meditazione zen, in buona parte. L’altra parte
di merito è da ascriversi a chi mi è rimasto accanto, nonostante lo offendessi
di continuo: i miei genitori in primo luogo, mai stanchi di sopportare le mie
crisi depressive, le mie accuse e le mie urla; il mio confessore, disposto a
trattare con me argomenti considerati “sensibili” come la mia sessualità e la
mia militanza LGBT; il mio ex-fidanzato, che io strapazzai come “inadeguato”,
nella fase di scioglimento del nostro legame; un altro mio caro amico, che non
cessò di manifestarmi affezione, anche se lo trattavo da satanasso perché
rappresentava un mondo al quale volevo contrappormi.
Cosa sono, adesso? Non sono più
un’adolescente ingenua, né un’universitaria piena di sé. Volontariamente, non
mi do un nome. Ai nomi ci si affeziona sempre troppo, finché non prendono il
posto di noi stessi. Mi limito a mettere nero su bianco ciò che ho vissuto, per
riordinare la mia mente e offrire un eventuale spunto a chi legge. Il resto è silenzio.
Commenti
Posta un commento
Si avvisano i gentili lettori che (come è ovvio) non verranno approvati commenti scurrili, offese dirette, incitazioni all'odio di qualunque tipo, messaggi che violino la privacy o ledano l'onore di terzi. Si prega di considerare questo blog come uno spazio di confronto, così come è stato fatto finora, e non come uno "sfogatoio". Ci scusiamo per eventuali ritardi nella pubblicazione dei commenti: cause (tecnologiche) di forza maggiore. Grazie.