Daisetz
Teitaro Suzuki (1870 – 1966) fu professore di filosofia buddhista all’Università
Otani di Kyoto ed è ricordato come l’esponente contemporaneo più autorevole del
Buddhismo Zen. I suoi libri sono praticamente una lettura obbligata per
chiunque s’interessi di mistica, anche cristiana. Per l’appunto, il testo di
cui tratteremo s’intitola Misticismo
cristiano e buddhista (Roma 1971, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini
Editore). È la traduzione italiana, a cura di M. Leoni, di: Misticism: Christian and Buddhist (New
York 1957, Harper & Brothers).
È la vicenda di un “incontro
impossibile”, quello fra Oriente e Occidente. Al giapponese Suzuki, le forme di
spiritualità cristiane sembrano ripugnanti e irrazionali, a partire dal
crocifisso, così lontano dalla serenità del Buddha. «In Occidente l’io
individuale asserisce con forza se stesso. In Oriente non vi è io, è
inesistente, e quindi non vi è io da crocifiggere» (p. 101); «In un certo senso
la mente orientale non è incline a dare corpo alle cose. L’io relativo viene
pertanto tranquillamente assorbito e incorporato nell’io trascendente…» (p.
102). L’idea alla base dell’Eucarestia (“mangiare la carne e bere il sangue”)
gli è disgustosa. Nemmeno digerisce volentieri la “pesantezza” dei «parafernali
mitologici» (p. 13) che del Cristianesimo sarebbero caratteristici (ovvero, le
narrazioni della vita di Cristo, dell’Antico Testamento e delle vite dei santi).
Però, Suzuki fa anche osservazioni interessanti sull’essenzialità dell’elemento
irrazionale nelle religioni: «…in ogni religione esistono elementi che possono
essere definiti irrazionali, e sono generalmente connessi con l’ardente
desiderio d’amore che hanno gli uomini» (p. 13). Infatti, prosegue affermando
che l’esperienza dell’illuminazione comprende l’amore fra le proprie
costituenti: «Vi sono in essa più lacrime di quanto noi non si immagini» (ibid.). Più avanti, Suzuki cede
dichiaratamente alla suggestione poetica della trasmigrazione, il trasferimento
di un’anima in un altro corpo dopo la morte del precedente (cfr. p. 99).
Sicuramente, è una dottrina che esprime in pieno l’atteggiamento buddhista
verso il mondo: un’empatia verso tutti gli esseri, a prescindere dalla loro
specie. Nell’elemento “poetico” o “mitologico”, si svela una concreta soluzione
esistenziale, che condiziona le azioni – e che, quindi, non può essere trattata
con leggerezza o sufficienza.
Comunque, il punto d’incontro fra
Cristianesimo e Buddhismo che D. T. Suzuki ritrova è una altro. È la mistica
del domenicano Meister Eckhart (1260 – 1328). Per il maestro zen, i suoi
sermoni furono una sorpresa e potrebbero esserlo per chiunque insista a incasellare
le personalità religiose nel “modernismo razionalizzato” o nel “tradizionalismo
conservatore”. «Egli procede nelle proprie esperienze, emergenti da una ricca e
profonda personalità religiosa, esperienze che egli tenta di conciliare con il
tipo storico del cristianesimo creato dalle leggende e dalla mitologia. Egli
tenta di dare ad esse un significato “esoterico” o interiore…» (p. 10).
L’idea basilare di Eckhart è la
seguente: «L’Essere è Dio… Dio e l’essere sono la stessa cosa – o Dio è posto
in essere da un altro e allora non è Dio…» (p. 11). Il carattere apparentemente
contorto delle considerazioni del domenicano viene dalla difficoltà di
esprimere a parole qualcosa che non ha natura verbale: ovvero, quell’
“esperienza” di cui Suzuki parlava e che doveva costituire il fattore di
attrazione della personalità di Eckhart sull’incolto uditorio. Questa
difficoltà di esprimersi è sperimentata dai buddhisti zen, nel momento in cui
vogliono superare (o far superare) le discriminazioni operate dalla mente
speculativa. Non a caso, lo Zen si distingue per la forma espressiva del
“paradosso”. «…esistono due fonti di conoscenza, due specie di esperienza o due
forme di verità […] e se non le riconosciamo, non potremo mai risolvere il
problema della contraddizione logica che, se espressa in parole, caratterizza
tutte le esperienze religiose. […] Il linguaggio si è sviluppato dapprima ad
uso di un primo tipo di conoscenza che era del tutto utilitaristico […] La sua
autorità è tale che noi siamo giunti ad accettare qualsiasi cosa il linguaggio
ci imponga. […] il linguaggio è giunto persino a sopprimere la verità delle
nuove esperienze…» (p. 44). Le due forme di verità sono: quella relativa
(legata alle esigenze pratiche di tutti i giorni) e quella trascendente (la
visione intuitiva e immediata della Realtà nel suo complesso). Quest’ultima, in
sanscrito, è detta prajñā. Suzuki la
ritrova in Eckhart, quando parla della Trinità: «…l’amore con cui Egli (Dio)
ama se stesso […] ‘Dio è una fontana che zampilla in se stessa’ come dice san
Dionigi» (p. 36).
Questa esperienza del divino porta
il domenicano ad affermare che «Dio ha lasciato un piccolo punto in cui l’anima
ritorna su se stessa, trova se stessa e si riconosce come creatura» (p. 62).
«Il “piccolo punto” lasciato da Dio corrisponde a ciò che il buddhismo Zen
chiamerebbe satori. Quando penetriamo
in questo punto abbiamo un satori […]
ed io sono certo che Eckhart ebbe un satori»
riconosce Suzuki a p. 64.
Questo è anche il punto in cui tutte
le religioni si unificano: l’abbandono finale di credenze e dottrine, per
accedere alla “presenza diretta” del “divino”.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 154 (15 ottobre 2015), p. 22-23.
Suzuki ha una sua personale idea di trasmigrazione che, come altre idee di trasmigrazione, non può essere scientificamente provata, ma che egli afferma di trovare ispirante e piena di suggestioni poetiche. La sua idea di trasmigrazione non è tuttavia “il trasferimento di un’anima in un altro corpo dopo la morte del precedente” che il vostro articolo gli attribuisce. Suzuki è un Buddhista Mahayana, e per lui vale in proposito la posizione “non-atman” (niente anima – niente ego) del Buddha. L’anima, quindi, per Suzuki semplicemente non esiste, né tantomeno con la morte può trasferirsi da un corpo ad un altro. La frase che inizia con “Considerando l’idea della trasmigrazione da questo punto di vista . . . “, e che occupa cinque righe, è chiaramente retorica, un’affermazione sotto forma di domanda con la quale Suzuki mostra la propria autentica idea di trasmigrazione, e cioè “che noi stiamo praticando la trasmigrazione in ogni momento della nostra vita”, una trasmigrazione che, come egli ha appena detto poco più sopra, è rappresentata da “un trisna infinitamente diversificato e diversificabile che esprime se stesso costituendo questo nostro mondo . . . “.
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