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La vergine di ferro - II, 1

Inizia la Parte II: Il Cigno Bianco e il Cigno Nero



1.

Amedeo aveva trasportato Nilde esausta fino a casa propria – aveva un appartamento da studente non grande, ma tutto per sé – e l’aveva adagiata sul letto. A se stesso avrebbe riservato il divano, per tutto il tempo necessario. Le aveva sciolto i capelli, ma non aveva osato sfilarle l’abito bianco che le era stato posto indosso per le mancate esequie, nella camera mortuaria del policlinico S. Matteo. Aveva lasciato accanto a lei la katana che la ragazza aveva trascinato con sé dal catafalco. 

            In tutto quel tempo, Nilde l’aveva guardato, con uno stanco sorriso di gratitudine. La leonessa che lottava per risvegliarsi completamente alla vita si fondeva con l’amica affettuosa. Amedeo aveva cercato di rimetterla in forze con le proprie modeste conoscenze di studente al terzo anno di Medicina. Ma il più era già stato fatto dalla straordinaria tempra della ragazza, sopravvissuta al trauma cranico e al misterioso preparato medicinale che l’aveva fatta cadere in uno stato di morte apparente. «Sei veramente di ferro» le sussurrò l’amico, accarezzandole la fronte. «Ah, già… “La vergine di ferro”. Mi aveva soprannominato così mio zio, quando avevo quindici anni» ricordò lei, con una smorfia di sarcasmo. «Darmi il nome di uno strumento di tortura era il suo modo di essere affettuoso».
            Il mattino dopo, Nilde si presentò a colazione con i vestiti che Amedeo le aveva frettolosamente comperato: una camicia viola e pantaloni scuri. «Grazie della scelta!» gli disse «Fra le altre cose, ho odiato quel vestito da Prima Comunione che mi hanno messo addosso».
«Direi che non è stato quello il peggio» rispose l’amico, amaramente. Nilde si sedette al suo stesso tavolino, già imbandito con tazze di latte, fette biscottate e marmellata. «Ho paura che tu avrai presto bisogno di qualche visita medica…» proseguì lui. Nilde rifiutò con un cenno infastidito. «Sei impazzito? Non hai capito che i dottoroni di Pavia sono quasi tutti amici di mio zio?» Amedeo rabbrividì: «Hai ragione… Non ci avevo pensato». Fece una pausa. Poi, con voce sommessa, osò: «Nilde… insomma… perché lui ha cercato di… insomma, perché voleva farti sparire?»
Lei lo fulminò con un lampo dei suoi occhi azzurri: «Non è questo il momento di parlarne». Poi, raddolcita: «Piuttosto… come mai ti trovavi di notte in viale Forlanini… a forzare la porta della camera mortuaria?»
            Amedeo respirò a fondo. Quasi inconsciamente, prese la mano dell’amica. «Quel pomeriggio, ti avevo fatto una visita… Prima di andarmene, ti ho baciato sulla fronte. Allora… ho sentito un leggero pulsare, un respiro impercettibile… Ma la camera è stata chiusa a chiave subito dopo che sono uscito e il medico che era con me mi ha guardato con occhi inquietanti. Allora, ho capito che qualcosa non andava… e che dovevo tirarti fuori di lì prima che ti portassero al cimitero, perché nessun altro l’avrebbe fatto».
Nilde lo fissò. «Com’era quel medico che hai visto?»
«Aveva una barba scura screziata di bianco… una voce molto profonda e cupa…»
«Era il dottor Sacchi, allora» indovinò lei. «Un anestesista, amico di mio zio. Ci avrei giurato».

[Continua]


Pubblicato su Uqbar Love, N. 150 (17 settembre 2015), pag. 25.

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