Ieri,
ho avuto la gioia di rimettere piede in un circolo che, per ragioni logistiche,
non posso frequentare troppo spesso. Abbiamo parlato di sessualità – e una
persona che conoscevo bene ha affermato che non
vedeva il bisogno d’avere una morale, fatta eccezione per il rispetto reciproco. Benché io abbia
taciuto, mi è squillato un campanello nella testa. Cosa c’era di strano? Solo
ora, dopo un poco di riflessione, so rispondere.
Ho sentito troppe volte una frase
del genere uscire dalle labbra di chi si è vantato d’aver più volte tradito l’anima
gemella, che ne soffriva. O dalla bocca di chi si è trovato un buon partito “per
sistemarsi, perché è pieno di soldi” – continuando, nel frattempo, ad avere
avventure intime di ogni genere, all’insaputa del “buon partito”. O anche dalla
stessa lingua che ha divulgato la mia privacy alla persona sbagliata. Mi sono
dunque detta: di cosa stiamo parlando?
Per deformazione professionale, mi
sono attaccata allo Zingarelli 2003 e ho trovato: “rispètto o †respètto [vc.
dotta, lat. respěctu(m), da respĭcere ‘guardare’, comp. di re- e spěcere ‘guardare’, di orig. indoeur.; av. 1292]”. Vi risparmio la
sfilza di definizioni che segue. Mi limito all’etimologia: l’atteggiamento di
chi resta a guardare, rinunciando all’iniziativa
e all’imposizione della propria forza. Ed è un atteggiamento che s’impara. Fin da bambini, le persone che
ci crescono non fanno che indicarci modi e situazioni che richiedono di
trattenere i propri impulsi. Così ci si allena a vivere in mezzo agli altri, a
coordinare le nostre esigenze con le loro. Ciò non si può fare senza una morale di qualche genere, ovvero una
nozione dei mores (= costumi, usanze
condivise).
Ergo, mi spiace per le persone a cui
ho alluso, ma non possono dire di saper rispettare il prossimo, se rinnegano la
necessità di una morale. Visto il modo in cui si sono comportate, affermerei –
piuttosto – che la loro bella frasetta è solo uno schermo per abbellire la loro
amoralità, il loro opportunismo. Forse, è questa l’ipocrisia del terzo millennio:
chiamare “emancipazione” e “apertura” il proprio menefreghismo verso il
prossimo. Una trappola foderata di seta, per cadere nelle lusinghe di chi usa i
nostri sentimenti per spillarci divertimento e favori – ridendo alle nostre
spalle della propria superiore intelligenza, del proprio successo. Non è
nemmeno reale cattiveria, perché chi è amorale non ha la nozione del “far del
male”. Ma, sicuramente, la predica sul “rispetto” andrebbe lasciata a tutt’altri
pulpiti.
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