“…uno come me,
davvero appiccicato dal dio alla città […] come a un imponente cavallo di
razza, che è però per la sua mole un po’ pigro e bisognoso di essere stuzzicato
da un qualche tafano…” (Apologia di
Socrate, 30e)
Buon,
vecchio Socrate… Così facile dire di lui tutto il bene e tutto il male
possibile…
Un
mosaico dell’edificio precristiano sottostante la cattedrale di Apamea lo rappresenta
attorniato dagli allievi (terzo quarto del IV sec. d.C., regno di Giuliano
l’Apostata). In questa stessa attitudine, le composizioni paleocristiane
rappresentavano Cristo in mezzo ai discepoli. Sorvolo, per il momento, sulla
questione del programma neoplatonico di Giuliano, per il quale i filosofi
dovevano la salvezza a Socrate (Lettera a
Temistio, 264d). Mi limito a registrare la somiglianza fra queste due
figure di maestri rudi, scomodi e arguti. “Uomini della crisi”, entrambi.
Dovevano morire come individui, perché – una volta risolta la crisi – non
avrebbero più avuto posto nel “mondo nuovo”. Dovevano risorgere e attraversare
i tempi nella moltitudine incalcolabile dei loro discepoli: uno nell’esperienza
dei razionalismi platonico, scettico, stoico, neoplatonico; l’altro nell’unità
realizzata per via rituale e mistica, perpetuando in modo incruento l’atto
decisivo del suo sacrificio. Ab illo
tempore, come si suol dire, sono
successe tante cose. Ma non è mutato il cuore del loro insegnamento: la società ha bisogno di tafani.
Il punto è: in che modo bisogna “comportarsi da tafani”? Pungere, sì, ma dove?
Con quale ago?
A questo ha risposto,
inconsapevolmente, una persona che ho incontrato nella riunione di un circolo
LGBT: «Il bisessuale ‘rompe le scatole’ a certe associazioni gay o lesbiche,
perché va a spezzare la forte identità che si sono costruite per difesa».
Ecco il punto. Essere tafani
significa incrinare un muro, una corazza, un noi-contro-gli-altri. (Al di là
che sia proprio sciocco pretendere che qualcuno “scelga”, laddove la scelta
razionale non ha affatto luogo…) Socrate insegnò agli Ateniesi che non erano i
più saggi e Cristo mostrò ai farisei che non erano i più puri. Il tutto in “periodi
di crisi”, in cui restava solo l’identitarismo a proteggere l’esistenza di una
collettività contro i colpi della storia. Davanti a questo, c’è una sola
salvezza: rinunciare alla purezza. Farsi
peccato, anatema, sacrilego, corruttore, qualcuno che nemmeno “i suoi”
riconoscono.
Anche chi ha intuito questo, però,
fatica ad abbandonare la logica del noi-contro-gli-altri. Per “combattere il fanatismo”,
adotta un altro fanatismo. Gli abitanti dell’impero romano – solitamente così
tolleranti in campo religioso – riuscirono ad addossare la colpa del crollo
imminente all’ “empietà” di una minoranza “atea” (ovvero, che disconosceva l’esistenza
dei molti dèi). Questa minoranza fece lo stesso coi nemici, non appena ebbe il
sostegno delle istituzioni.
Atene fu la culla della retorica e del
confronto dialettico, per poi uccidere il più versatile dialettico che i nostri
testi di filosofia ricordino. E così via, fino alla chiusura razionalistica
verso ogni religione, o alla nostalgia di Pio X contro “i tempi corrotti”.
Quando
guardo alla situazione del dibattito spirituale o politico in cui vivo, mi
vengono in mente i versi di una canzone udita anni fa: “…tutti dicon che la
pace ci sarà:/basta star con questi qua/e far fuori quelli là…” Il fatto che
non esistano più le ideologie novecentesche o le Crociate medievali rende questo
atteggiamento tragicomico, ma non inspiegabile. È il naufrago ad aggrapparsi
con forza a tutto quel che trova. “Siamo nello sfacelo e la colpa è di quelli là. Dobbiamo sconfiggerli assolutamente”. Discorso che trovo folle negli
autoritaristi e odioso nei paladini di liberté,
égalité, fraternité. I primi ricorrono a un semplicismo, i secondi
tradiscono di fatto (e di principio) ciò che propongono. Soprattutto, in bocca
agli uni o agli altri, l’assunto di cui sopra è falso. Punto. La sorte di una società o di un’entità politica è
prodotto delle azioni di tutti, non
solo di una fetta di capri espiatori.
Allora,
che fare? Come collaborare alla
convivenza, senza far degenerare uno sforzo collettivo in fanatismo?
Rinunciare e
chiudere le orecchie. Rinunciare all’autocompiacimento del “sto facendo
qualcosa d’importante”, al sentirsi lodare per “aver fatto la scelta giusta”.
Chiudere le orecchie a chi ti dà dell’ “ignavo”, del “qualunquista” e del “lassista”
solo perché sei sordo alle sue convinzioni e alla sua propaganda. Quando avrai
creato in te il silenzio di fronte a tutto questo, alzati e cammina. Potrai anche aderire a una parte, ma sempre con
padronanza di te stess* e del tuo senso critico. Habere, non haberi. Qualunque cosa farai, quella sarà la tua parte a questo mondo – e nessun’altra. A tutti farai rabbia disprezzo invidia riso. Ma tu
sarai lontano, più in alto che il giorno.
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