“Ero
stato nominato governatore di un villaggio di mille anime, una metropoli di
capanne, di zebù, e di palme, al centro di una immensa foresta nel cuore di
tenebra dell’Africa. Il giorno del mio insediamento avevo fatto venire nel mio
bungalow il capo locale, e attraverso la mediazione canora di un interprete,
gli avevo annunciato l’avvento della legge. Sapevo, per notizie pescate in un
libro di antropologia, che quel popolo barbaro praticava la tortura. Il nemico
catturato veniva sottoposto a mille supplizi prima di essere messo a morte con
un colpo di lancia ben «mirato». L’etnologo, che aveva studiato il fenomeno,
era giunto a una singolare conclusione, e cioè, dichiarava che il prigioniero
chiedeva lui stesso di subir le sevizie, e le più atroci, per dimostrare ai
nemici la sua forza d’animo; la sola cosa che temeva veramente era morire come
una donnetta, in modo indolore, e, quindi, disonorevole. Dato che la giustizia,
e la civiltà, non conoscono latitudini, abolire questo rituale mi sembrò subito
un mio preciso dovere. Nel mio bungalow, mentre la luna saliva all’orizzonte,
nel rullo dei tamburi che festeggiavano il mio arrivo, di fronte a quel
selvaggio vestito di pelli di leopardo e di piume di struzzo, parlai con
fervore, e con dolcezza, della fratellanza, e della comunione tra gli uomini.
Gli dissi che infliggere dolore a un altro è un’azione vile, che dà infamia, e
non gloria, a chi la compie, e che nella pace, e non nella guerra, nel perdono,
e non nella vendetta, si rivela la dignità dell’uomo, il suo essere diverso
dalla belva, e partecipe dell’angelo. Il capo scosse la testa adorna di piume
di struzzo, e se ne andò, in silenzio, con gli occhi pieni di un oscuro
stupore. Alcuni giorni dopo, però, e comincia la parte dolorosa della storia,
due soldati della mia guarnigione scoprirono nella foresta le tracce di un rito
sadico appena consumato: un ragazzo, di una tribù vicina, sperduto, nella
foresta, si era imbattuto in una pattuglia dei miei sudditi, che l’avevano
legato a un sicomoro e orribilmente seviziato. Il cadavere, malamente sepolto,
serbava nel corpo i segni del ferro, e del fuoco. Feci arrestare il capo del
villaggio, che ritenevo responsabile morale, se non complice, o ispiratore, del
fattaccio. Incontrai, così, di nuovo, i suoi occhi pieni di stupefazione sotto
la testa di un leone, che gli fungeva da copricapo cerimoniale. Gli ordinai,
questa volta in modo perentorio, di parlare al suo popolo contro la tortura, e
di promuoverne l’abolizione. Scosse il capo, abbassò la faccia, e restò in
silenzio. Sapevo che l’atto equivaleva a un diniego. Non potevo far finta di
nulla e rimandarlo tra i suoi: la mia autorità esigeva un castigo, anche
veniale. Lo feci buttare in carcere a pane e acqua per una decina di giorni:
pena ben lieve per una complicità di omicidio! Al termine della sua reclusione,
quando gli ripetei l’ordine, il suo volto, un po’ emaciato e terreo, si
contrasse: non rispose, ma non abbassò il capo: mi fissò dritto negli occhi e…
sorrise. Lo supplicai, lo minacciai, mentre continuava a sorridere. Detesto
coercire fisicamente chicchesia, ma se le parole non servono? Se la ragione non
è intesa? Bisognava «aiutarlo» un poco a capire. Non si fa lo stesso con i
bambini? Via, non mi direte che uno scapaccione al momento giusto costituisce
un delitto di «lesa pedagogia»! Lo feci chiudere in un abitacolo di latta, una
sorta di garitta, arroventata, a mezzogiorno, dal furibondo sole equatoriale.
Il sesto giorno aprii un oblò di
osservazione e lo vidi, tutto raggomitolato, come una gigantesca mummia color
cenere. Quando lo chiamai, si scosse, e balzò in piedi, trampoliere tragico, a
fissarmi negli occhi e a sussurrarmi, con voce spenta, il suo diniego.
La
sua ostinazione mi rese cattivo, e disperato. Gli ordinai, per l’ultima volta,
di dire al suo popolo di smetterla con la tortura. Gli gridai, sul viso a lama
di coltello, che tagliava a metà l’oblò, che la tortura è il massimo disonore
dell’uomo.
L’ottavo giorno lo tirammo fuori e
lo seppellimmo sotto un sicomoro.”
GIORGIO CELLI
Da:
Dio fa il professore, Torino 1994,
Bollati Boringhieri, riduzione.
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