Passa ai contenuti principali

La nipote del diavolo - III, 8

Parte III: Colloqui



8.

Finalmente, Nilde e Michele Ario erano l’uno di fronte all’altra – la katana stretta da ambedue le mani e puntata all’altezza degli occhi dell’avversario. Eppure, non c’era traccia di sudore, sulle loro fronti. Riuscivano a gustare la brezza primaverile che soffiava sui loro volti, talora, qualche petalo di ciliegio. La luna illuminava lo spiazzo in cui si trovavano. Irene Serra assisteva nell’ombra.
           
Le spade cominciarono un colloquio muto e argentino, disegnando archi nell’aria. Si interrogavano, si provocavano, si rispondevano, si abbracciavano e si discostavano, come corpi. Quella di Nilde descriveva sei anni di silenzio trascorsi per amore dell’incolumità di un altro, nella paura che non uscisse più vivo dalla casa dello zio. Descriveva l’orrore d’essersi ritrovata in una bara, con le membra che non le rispondevano e l’encefalo ottuso dalla nausea. Urlava il desiderio di formarsi una famiglia sua, con qualcuno che non fosse un farabutto manipolatore. E spandeva il rimpianto per non aver mai pronunciato vere parole d’affetto per quell’uomo chiuso e ambiguo, che – forse – non aveva osato mendicare l’amore della nipote. Lo faceva, in quel momento, la katana di Ario. Mentre la lama sfiorava le carni della ragazza, essa le rimproverava ferocemente i bronci infantili, gli atti di sfida, i mutismi, il sarcasmo. Così come il desiderio d’obbedienza e attenzione da parte dello zio non aveva potuto toccare Nilde in tutta la propria vita, così il taglio della spada non la raggiungeva mai. I fendenti dell’uomo tracciavano anche un racconto che lei non poteva intendere: quello di sua madre, sola con il cognato in quello studio ove lo psicologo aveva osato parlarle unicamente di fiducia nella vita, senza mai proporgliene una con lui. Quando la katana di Ario terminò la triste storia, fu come se lui stesso si consegnasse alla lama di Nilde. La sua caduta parve lieve, come un petalo di ciliegio.

[Continua]

Pubblicato sul quotidiano on line Uqbar Love (30 agosto 2016).


Commenti

Post popolari in questo blog

Letteratura spagnola del XVII secolo

Il Seicento è, anche per la Spagna, il secolo del Barocco. Tipici della letteratura dell'epoca sono il "culteranesimo" (predilezione per termini preziosi e difficili) e il "concettismo" (ricerca di figure retoriche che accostino elementi assai diversi fra loro, suscitando stupore e meraviglia nel lettore). Per liberare il Barocco dall'accusa di artificiosità, si è cercato di distinguere una corrente "culterana", letterariamente corrotta e di contenuti anche immorali, da una corrente "concettista", nutrita dalla grande tradizione intellettuale e morale spagnola. E' vero che il Barocco spagnolo vede, al proprio interno, vivaci polemiche fra autori (come Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo) e gruppi. Ma l'esistenza di queste due contrapposte correnti non ha fondamento reale. Quanto al concettismo, è interessante notare come esso sia stato alimentato dalla significativa definizione che di "concetto" ha dato Francesco

Farfalle prigioniere, ovvero La vita è sogno

Una giovane mano traccia le linee d’una farfalla. Una farfalla vera si dibatte sotto una campanella di vetro. La mano (che, ora, ha il volto d’un giovane pallido e fine) alza la campanella. L’insetto, finalmente libero, si libra e guida lo spettatore nella storia del suo alter ego, la Sposa Cadavere.              Così come Beetlejuice , The Corpse Bride (2005; regia di Tim Burton e Mike Johnson) si svolge a cavallo tra il mondo dei vivi e quello dei morti, mostrandone l’ambiguità. A partire dal fatto che il mondo dei “vivi” è intriso di tinte funeree, fra il blu e il grigio, mentre quello dei “morti” è caleidoscopico, multiforme, scoppiettante. A questi spettano la gioia, la saggezza e la passione; a quelli la noia, la decadenza, l’aridità. Fra i “vivi”, ogni cosa si svolge secondo sterili schemi; fra i “morti”, ogni sogno è possibile. Per l’appunto, di sogno si tratta, nel caso di tutti e tre i protagonisti. A Victor e Victoria, destinati a un matrimonio di convenienza, non è co

"Gomorra": dal libro al film

All’inizio, il buio. Poi, lentamente, sbocciano velenosi fiori di luce: lividi, violenti. Lampade abbronzanti che delineano una figura maschile, immobile espressione di forza.   Così comincia il film Gomorra, di Matteo Garrone (2008), tratto dal celeberrimo libro-inchiesta di Roberto Saviano. L’opera del giornalista prendeva avvio in un porto: un container si apriva per errore, centinaia di corpi ne cadevano. Il rimpatrio clandestino dei defunti cinesi era l’emblema del porto di Napoli come “ombelico del mondo”, dal quale simili traffici partono ed al quale approdano, da ogni angolo del pianeta. Il film di Garrone si apre, invece, in un centro benessere, dove regna un clima di soddisfazione e virile narcisismo. Proprio qui esplode la violenza: tre spari, che interrompono il benessere e, al contempo, sembrano inserirvisi naturalmente, come un’acqua carsica che affiora in un suolo perché sotto vi scorreva da prima. Il tutto sottolineato da una canzone neomelodica italiana: i