Tempo
fa, ho composto un’Apologia negativa,
per riflettere su quali non fossero i
motivi per cui avevo abbandonato il cattolicesimo. Per un’esigenza di chiarezza
con me stessa e con coloro con cui mi relaziono, preferisco aggiungere - ora -
dichiarazioni in positivo.
Ho trascorso circa due anni di
precarietà in senso spirituale, cosa abbastanza ovvia per chi prenda sul serio
questo ambito e non voglia fare affermazioni affrettate o false. Ma, alla fine,
il processo ha raggiunto il proprio esito. All’inizio, la mia crisi religiosa
sembrava legata alla mia appartenenza al mondo LGBT. Ma questo, per anni, non
era stato sufficiente a scalfire la mia esperienza di fede. Avevo contattato il
Progetto Gionata e l’associazione "Il Guado", due realtà ricche di stimoli in questo senso. Anche senza di queste, avrei
comunque riposato sulla pace della mia coscienza, perché in nulla dei miei
sentimenti o dei miei atti si potevano trovare morbosità o consumismo del
piacere.
Il discorso è cambiato, nel momento
in cui è stata in questione la natura di ciò che chiamavo “fede” o “adesione al
cattolicesimo”. Per essere membri a pieno titolo della Chiesa di Roma, è essenziale l’aspetto dottrinale: ovvero,
la coincidenza fra le proprie convinzioni e gli insegnamenti raccolti nel
documento noto come Catechismo; o, almeno, la volontà di farli coincidere. Per
una sintesi e un confronto, rimando al testo dell’Atto di fede.
La mia vita religiosa, invece, aveva
radice in un’esperienza di esplosiva
illuminazione che avevo sperimentato nella preghiera verso i miei dodici
anni. Ridurla interamente in parole è impossibile. Posso paragonarla all’inondazione
improvvisa della mia psiche, d’un tratto ripiena di un “caldo sentimento” che
le faceva vedere ogni cosa come preziosa e prodigiosa. L’unica cosa con cui
sapevo confrontarla erano le estasi dei santi, nelle note agiografie. Né fu
quella la fine del mio percorso, anzi. Ma sarebbe troppo lungo relazionarlo in
questa sede.
Il fatto che la mia fede venisse da
una forte esperienza personale e non dall’opera persuasiva di un’istituzione,
però, la rendeva già di per sé aconfessionale.
Il misticismo, così come le apparizioni e la taumaturgia, è un fenomeno che le
religioni storiche organizzate cercano d’inglobare - perché attira adesioni e
perché non lo si può ignorare. Ma causa anche imbarazzo e volontà di indagare,
proprio per la sua difficile riducibilità a un’ortodossia. Non è dogma; e non è
razionalizzabile. Trova la propria radice nel suo stesso verificarsi, nell’essere
esperienza e fatto. Per questo, non posso tuttora affermare che i fenomeni religiosi
siano fatti di sola menzogna. Ma quel che abbiamo considerato impone un’altra
osservazione: ciò che ho vissuto nella preghiera avveniva dentro di me. Non aveva un’evidenza incontrovertibile per gli
altri, né si verificava necessariamente in loro. Era, letteralmente, un’esperienza
per iniziati. Era in contrasto con l’assunto
dell’esistenza di un Dio oggettivo ed esteriore - tanto esteriore da essere
trascendente. Potevo ben considerare la mia esperienza un “dono di Dio”, una “prova
della Sua esistenza”. Potevo tacciare gran parte del mondo di essere troppo
cieco per vederLo. Ma l’assoluta casualità della mia illuminazione mi aveva
mostrato come fosse impossibile produrla “a comando” e anche come non
esistessero ragionamenti o prove empiriche per renderla evidente.
I miei studi nel campo delle Lettere
antiche - e dei testi biblici in particolare - mi restituirono un quadro
inesauribile dell’esperienza religiosa ebraico-cristiana. Mi resero - per così
dire - più vive e concrete quelle vicende che avevo gustato solo sotto forma di
pie storielle. Ma cancellarono qualunque possibilità di dogmatismo. I testi
sacri mi apparvero nella loro storia di aggiunte, traduzioni, interpolazioni,
incertezze sul canone. Ciò mi dimostrò che, dietro di essi, c’era una viva
esperienza storica del “divino”, cosa che spiegava la tormentata vicenda dei
testi. Quel che è vivo si muove. Di certo, non avrei potuto brandire quei
versetti come arma di certezza incrollabile. Ma la confessione in cui ero
cresciuta era comunque contraria al letteralismo, nella lettura dei testi
biblici, quindi non mi parve un grosso problema.
Non potendo trovare conoscenze
oggettive sul divino fuori da me stessa, mi concentrai su quanto di tangibile e
innegabile avevo a disposizione: quella mia primitiva esperienza e ogni cosa si
muovesse dentro di me nel rito e nell’orazione. Sviluppai così,
inconsapevolmente, un atteggiamento tipico delle tradizioni spirituali non
teiste. Ritrovai il mio vissuto interiore nei racconti dei saggi taoisti e nel satori del Buddhismo zen.
Già da tempo, per il resto, mi
sentivo sempre più lontana da atteggiamenti tipici dei cattolici ferventi, che
erano stati anche miei. Non mi sforzavo più di leggere qualunque avvenimento
secondo i dettami dottrinali, perché mi rendevo conto che quel surriscaldamento
mentale complicava la realtà, anziché renderla più chiara. Trovavo anche assai
poca onestà intellettuale nel voler incasellare ogni fenomeno in uno schema già
dato: la mia mente, in quel modo, serviva solo il mio bisogno di rassicurarmi e
la mia superbia di sentirmi nel vero, più che l’interesse di conoscere.
Il mio distacco dal cattolicesimo
diveniva anche morale. Condividevo sempre meno il tipico atteggiamento “i
precetti rimangono questi, pratichiamoli come possiamo”. Trovavo che una regola,
per essere tale, dovesse essere non solo applicata effettivamente (e in prima
persona!), ma anche essere dettata da una necessità. E la Necessità non ha
misericordia. Ma non impone nemmeno sforzi superflui, generatori di nevrosi o
ipocrisie, come mi è capitato di rilevarne in persone che volevano essere all’altezza
di un’immagine troppo diversa da loro stesse. I richiami evangelici contro le
complicazioni farisaiche della morale incoraggiavano queste mie convinzioni.
Nel frattempo, sia la mia riflessione
personale, sia l’esperienza della meditazione zen mi facevano toccare con mano
l’inconsistenza delle mie immagini mentali. Avevo già sperimentato l’impossibilità
di afferrare il divino con le categorie del pensiero; si aggiunse la
consapevolezza della loro fallacia. Essa non si trasformò in nichilismo, ma in
un più forte senso della realtà -
che, in quanto tale, può solo essere vissuto, non trasmesso a parole. Questo senso della realtà è anche ciò che tiene
lontani dai due estremi del relativismo spicciolo e del dogmatismo. Entrambi
sono sradicamenti dal concreto.
Credo che quanto detto sia
sufficiente a spiegare l’espressione con cui mi sono chiamata: “agnostica non razionalista”. “Agnostica”,
perché le mie posizioni non coincidono con nessuna delle religioni che conosco;
perché dare al trascendente qualche attributo (compreso quello della
non-esistenza) significherebbe contraddirne la trascendenza, che è
inafferrabilità da parte degli strumenti conoscitivi. “Non razionalista”,
perché riconosco dignità socio-culturale (e necessità alla felicità umana)
anche a ciò che non è prodotto della mera ragione: misticismo, taumaturgia,
arte romantica e surreale, poesia, rapporti affettivi, meditazione, estasi,
sensazioni.
Per
lunga che possa sembrare questa confessione - che è anche una dichiarazione di
apostasia - nessuna parola, in essa, è definitiva o superflua.
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