Trovare
la scintilla che trasforma la religione in fanatismo e violenza è una questione
che coinvolge chiunque abbia a che vedere con un percorso spirituale. L’ottica
degli occidentali, però, è limitata dal fatto che la loro ricerca - spesso -
non va oltre la tradizione abramitica (Ebraismo, Cristianesimo, Islam).
Spunti interessanti
sull’universalità della “guerra santa” vengono dal lavoro di Brian Daizen Victoria (N. 1939). Praticante
zen e ordinato all’interno della scuola Sōtō, dirige il Programma di Studi Buddhisti
in Giappone all’Antioch College. Ha al proprio attivo pubblicazioni in inglese
e in giapponese, fra cui Zen Master
Dōgen e Zen War Stories.
Monaci zen a Eiheiji, durante le esercitazioni militari (1938). |
La sua opera più famosa, però, è Zen
at War (1997). Quella qui presentata è la sua seconda edizione (2006,
Rowman & Littlefield Publishers, Inc.). Le citazioni in questo articolo
sono di mia traduzione.
Dato il suo status di religioso e di
appassionato praticante, Victoria si è detto “forzato” (p. 232) ad analizzare
un lato oscuro del Buddhismo Zen. Il saggio, peraltro dettagliato e
documentato, è da lui presentato come “un primo passo” (p. XII) negli studi sul
rapporto fra Zen e militarismo.
La Parte 1 riguarda la restaurazione Meiji del 1868. Victoria
ricapitola una storia buddhista di circa 1500 anni in Giappone, a partire dalla
sua introduzione dalla Corea a metà del VI sec. d.C. (p. 3). “Nel periodo Tokugawa (1600 - 1868), il
Buddhismo ha, almeno apparentemente, raggiunto l’apice del proprio potere,
funzionando come una religione di Stato de
facto.” (ibid.) Ciò si tradusse
in una fioritura di templi, ma anche nella trasformazione degli ordinati in
poco più che funzionari pubblici - come avvenne sotto il regno di Spagna e
durante la colonizzazione dell’attuale America latina. Naturalmente,
quest’epoca contò anche diverse adesioni a determinate scuole in base a ragioni
puramente politiche.
Gli scopi dello shogunato Tokugawa
erano ottenere un controllo totale sulle istituzioni radicate nel territorio e
sradicare il Cristianesimo, considerato veicolo della colonizzazione
occidentale.
La situazione cambiò a partire dal
1868, all’inizio dell’era Meiji, o “periodo del regno illuminato”. Per volontà
dell’imperatore, il Buddhismo fu distinto nettamente dallo Shintoismo e
quest’ultimo divenne la religione favorita dallo Stato. “I leader buddhisti si
accorsero rapidamente che la loro migliore speranza di far rivivere la propria
fede era di allinearsi con il crescente sentimento nazionalistico dell’epoca.
Conclusero che l’unico modo di dimostrare la propria utilità ai nuovi leader
nazionalisti del Giappone era di supportare una campagna anticristiana…” (p.
6).
Questa strategia di sopravvivenza
ebbe significative conseguenze. nelle guerre successive. Il conflitto sino-giapponese (1894-95) vide uno scontro fra le due
potenze dirimpettaie per l’egemonia sulla Corea (cfr. p. 19). Figure di
riferimento del Buddhismo nipponico - come Inoue Enryō, Mori Naoki, Shaku Unshō,
Katō Totsudō - giustificarono la guerra in vari modi: per spirito di devozione
filiale verso l’imperatore, per la sacralità del Giappone in quanto sede della
dinastia imperiale, per propagare lo Zen, per “lo speciale genere di vigore”
insito in quest’ultima tradizione spirituale.
In occasione del conflitto russo-giapponese (1904-5), fu
posta ancor più attenzione al lato filosofico del rapporto fra il Buddhismo, lo
Stato e la guerra. A questo si dedicò D. T. Suzuki, che descrisse lo Stato come un corpo e la religione come il suo
spirito (cfr. pp. 23-24). Per quanto egli non avesse mai trattato il potere
politico come un valore assoluto, questo tipo di posizione contribuì a
identificare la morale religiosa con la ragion di Stato. Fino alla sconfitta
del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, i leader buddhisti sostennero il
suo diritto di perseguire i suoi interessi commerciali come preferisse;
affermarono il dovere di punire i “pagani senza legge” (jama gedō), qualora avessero “interferito col progresso
dell’umanità”, ovvero coi suddetti interessi commerciali e coloniali; il
supporto delle religioni giapponesi a tale punizione sarebbe stato
incondizionato, in quanto volto ad affermare la giustizia; i soldati avrebbero
dovuto offrire la propria vita senza esitazione; adempiere il proprio dovere
verso lo Stato sul campo di battaglia sarebbe stato un atto religioso. (Cfr. p.
25). L’origine di queste idee è da ricercarsi anche negli scritti di Shaku Sōen, “maestro zen pienamente
illuminato riconosciuto dalla tradizione zen Rinzai” (p. 28).
Poco prima che le ostilità fra
Russia e Giappone scoppiassero, il succitato Inoue Enryō aveva affermato: “…la Russia non è solo il nemico del
nostro Paese, è anche il nemico del Buddha. In Russia, Stato e religione sono
una cosa sola, e non c’è libertà di culto. […] Per questo la Russia non è solo
il nemico del nostro Paese, ma anche del Buddha. […] Il motivo per cui il
Buddhismo è ancora vivo nel nostro Paese oggi è la protezione accordata dagli
imperatori nei secoli […] è semplicemente naturale per i buddhisti combattere
fino alla morte per ripagare il debito di gratitudine che hanno nei confronti
del Buddha e dell’imperatore.” (Cit. alle pp. 29-30).
Naturalmente, vi fu anche una
minoranza che si ribellò alla diffusa strumentalizzazione dello Zen. Il caso
più eclatante è quello di Uchiyama Gudō (1874-1911).
Ordinato all’interno della scuola Sōtō, sposò idee anarco-socialiste, perché
conformi allo stile di vita comunitario del Sangha (la tradizionale
organizzazione dei monasteri zen). Il suo attivismo politico era ispirato al
desiderio tipicamente buddhista di alleviare le sofferenze di tutti gli esseri.
Rifiutò l’abituale interpretazione del karma (= peso delle proprie azioni in
una vita precedente) come una giustificazione delle disparità sociali. Nel
1910, fu accusato (senza prove) di congiura contro la vita del sovrano (“High Treason Incident”), arrestato e giustiziato
frettolosamente con dieci compagni. I suoi scritti e la sua corrispondenza
furono fatti scomparire; il suo nome non poté essere posto sul segnacolo
funerario del suo tempio; uno dei suoi “parrocchiani” fu ricercato dalla
polizia per aver lasciato fiori sulla sua tomba. Gli altri personaggi di spicco
della scuola Sōtō si affrettarono a prendere le distanze da lui; così pure la scuola
Rinzai ribadì il proprio fondamentale rispetto per l’imperatore e la scuola
Shin il rifiuto delle idee socialiste. Nel 1912, fu pubblicata una raccolta di
saggi sul patriottismo e la reverenza verso l’imperatore. Il contributo di Ōuchi
Seiran condannò pesantemente anche il Cristianesimo, perché sviava dal culto
del sovrano, rifiutava la dottrina del karma che giustificava le strutture
sociali e andava perciò combattuto come “dottrina eretica” (cit. a p. 52). Il
governo sponsorizzò comunque la Conferenza
delle Tre Religioni, nello stesso anno, che riunì buddhisti, shintoisti e
cristiani nell’intento di rispondere allo “High Treason Incident” e al
socialismo con un ritorno di fervore patriottico.
Il generale Nogi |
Coloro che rifiutavano la deferenza
dei leader zen allo Stato si riunirono nella Lega dei Giovani per la Rivitalizzazione del Buddhismo (Shinkō Bukkyō Seinen Dōmei), nel 1931.
La dichiarazione che mostrava le ragioni
della sua fondazione accusava la maggioranza dei buddhisti di essere
“intossicati da una facile pace della mente” (p. 67) e li richiamava agli alti
valori sociali di cui la loro spiritualità doveva essere portatrice: amore,
eguaglianza, libertà.
Il loro coraggio e quello di vari
oppositori individuali non bloccò però la nascita di quello che Victoria chiama
“imperial-way Buddhism (kōdō Bukkyō)”: la netta
subordinazione dello Zen istituzionale allo Stato e alla sua politica. Questo
comportò anche il coinvolgimento delle maggiori scuole - soprattutto la Sōtō e
la Rinzai - negli sforzi bellici nazionali. Esse erano portatrici del
sunnominato Bushido, la “via del guerriero”, nonché di una spiritualità che
aboliva la paura della morte, favorendo lucidità e abnegazione. Il rapporto fra
lo Zen e l’arte della spada fu sottolineato dal già menzionato D. T. Suzuki
nella sua opera principale: Zen Buddhism
and Its Influence on Japanese Culture (1938). Rivisitato e ripubblicato nel
1959 dalla Princeton University Press, esso divenne Zen and Japanese Culture. Colei che scrive ha molto apprezzato
la suddetta opera, tradotta in italiano per i tipi di Adelphi nel 2014: tanto
da ispirarsi a essa per le Parti II e III del romanzo a puntate La nipote del diavolo. Ha apprezzato
assai meno il fatto che gli scritti di Suzuki abbiano influenzato lo spirito
militare della Germania nazista e il
fascismo italiano (cfr. pp. 111-112
e la nota 43 a p. 242).
Ma poteva tutto questo essere
considerato Buddhismo? Victoria riassume i principali insegnamenti del
fondatore, il Buddha Shakyamuni (VI-V
sec. a.C.): il rifiuto di distruggere la vita, di guadagnarsi un mantenimento
tramite professioni nocive ad altri - compresa quella militare; l’onestà, la
compassione verso ogni essere vivente (cfr. pp. 192 ss.). Aneddoti della sua
vita lo mostrano intento a sventare operazioni belliche, con la semplice forza
della dialettica, o nello scoraggiare metodi di governo repressivi (cfr. pp.
193-195).
Il re Ashoka |
Alla luce di questo, l’
“imperial-way Buddhism” non poteva essere considerato fedele al proprio intimo
spirito. Eppure, c’era stato un precedente, nella strumentalizzazione
filomonarchica. Il re Ashoka (ca.
269-32 a.C.), che governò buona parte del subcontinente indiano, è ricordato
come ideale di sovrano buddhista. Questo perché promosse leggi e costumi
ispirati al Buddhismo, facendo di questo il
collante dei domini conquistati - come avvenne col Cristianesimo sotto i “re cattolici” di Spagna (seconda metà
del XV sec.). L’analogia comprende anche la repressione delle minoranze
religiose: in barba al principio di non-violenza, Ashoka fece sterminare
diciottomila persone, probabilmente jainisti, con l’accusa di blasfemia a
carico di uno di loro (cfr. pp. 197-198). In un’altra occasione, fece
rinchiudere un jainista e la sua famiglia in casa, per poi darle fuoco (cfr. p.
198).
Il calzante parallelo fra l’India di
Ashoka e la Spagna dei re cattolici ci traghetta verso le conclusioni.
Esaminare il rapporto fra religione e violenza richiede sia il rifiuto
dell’ingenuità, sia quello del moralismo. Non è possibile trattare le
tradizioni spirituali come qualcosa di “puro”, uno scudo contro tutti i mali,
una nuvola rosa rispetto alle “brutture del mondo”. Né ha senso “fuggire verso
Oriente”, alla ricerca di una “religiosità incorrotta” - o aggrapparsi alla
“tradizione occidentale”, come “baluardo contro la barbarie”. Sviluppandosi
nella storia e nella società umane, esse le influenzano tanto quanto ne sono
influenzate.
Nemmeno è onesto, però, trattare con
disprezzo la religione altrui perché “ha commesso tante violenze”. Ogni forma
di potere politico è tentata d’impiegare le religioni per omologare gli uomini
e renderli più governabili. Così pure ogni clero - od ogni comunità - rifiuta
raramente una protezione “terrena” piena di insidie spirituali, ma sempre utile
per ottenere fondi e sicurezza.
Il matrimonio con lo Stato rende
violenta ogni ideologia - anche di matrice non religiosa - per un fatto molto
semplice: l’affermazione di un potere
centrale, con strumenti burocratici,
militari e polizieschi allo stesso tempo, è un coinvolgimento di ogni uomo in una struttura che pretende di normare
astrattamente il suo comportamento e di castigare le deviazioni da detta norma,
anche quando innocue.
A ogni anima affamata di spiritualità
- anche in senso laico - non resta che una via, per non ripetere gli errori che
appartengono tanto all’Oriente quanto all’Occidente: rinunciare al “regno dell’utopia” sulla Terra, per non governare
che se stessi.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 182 (5 maggio 2016), pp. 17-20.
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